Loading...

Erodiàs

Teatro i

di Giovanni Testori

“Jokanaan! “

Erodiàs, il più violento dei Tre Lai, inizia così, con un urlo reiterato che si fa gioco di parole, musica che parte dal nome ebraico del Battista e che giunge a poco a poco a conficcarsi nella carne lombarda dilaniata.

Giovanni Testori ha dedicato a Erodiade più di un testo. Noi scegliamo Erodiàs, l’Erodiade spodestata, posseduta, ossessiva, che balbetta. Noi partiamo dalla rabbia che smangia l’essere umano quando si trova davanti al limite, alla finitudine, quando il discorso s’incaglia e resta solo la potenza del grido.

Perché affrontare Erodiàs? Che cosa rappresenta oggi questa donna dilaniata d’amore per Giovanni Battista? Che cosa raccontano le sue parole di lussuria verso il profeta, simbolo di una religione che lei non riesce a comprendere né a definire?

Erodiàs incarna un tempo in cui la ragione non è ancora arrivata: una zona d’ombra non illuminata dalla luce dello spirito, un eterno purgatorio in cui la conoscenza/coscienza non trova spazio. Un personaggio “sottovuoto”, una figura bidimensionale che vive dietro un vetro. Un manichino che a noi si mostra da una vetrina di sbarlusc: il suo è un mondo inevitabilmente separato dal nostro, ma ora del tutto compromesso e scardinato dall’arrivo di un Dio che si è fatto carne: il verbum.

Sulla scena un quadro che prende vita e, al contempo, un negozio o uno schermo: l’unica dimensione in cui Eròdias può ancora sopravvivere, seppur confusa da quel conzerto e conzertino di dubbi e domande che il profeta ha in lei provocato. Non è abbastanza averlo messo a tacere con un atto cruento e blasfemo: la testa di Giovanni, separata da corpo, continua a parlarle, la provoca, le impone interrogativi a cui non trova risposta.

Erodiàs non è più l’Erodiàs che era, ormai è il Battista stesso. Di lui prende le fattezze, una maschera nella maschera, da lui prende parole che non conosce, che non stanno ancora nella sua bocca, di lui cerca segni in ogni dove.

Da lui, dall’amore per lui, nasce il suo tormento: che fare? Come andare avanti?

Questa domanda risuona. Anche oggi.

Che fare di un Dio che è diventato uomo e che, come ogni uomo, può anche sbagliare? Che fare di un mondo che ha perso il suo centro? Che fare di un amore che si sapeva di carne eppure ha l’odore dell’anima?

Lo spettatore assiste. Guarda e aspetta, non può fare altro.

Per l’ennesima volta vede, davanti a sé, una dicotomia senza tempo: corpo e mente, ignoranza e conoscenza, sesso e morte. Infinite declinazioni della stessa cosa. Di una vita che cerca, non trova, e allora attende. Attende. Come se non ci fosse altra possibilità che questa.

Ma è così? Oggi, è davvero così?

In un’intervista ad Arbasino, Giovanni Testori dice: “Faccio sempre più fatica a pensare narrativamente. Il nucleo narrativo nasce in un suo modo, completamente diverso. Una vicenda, quando viene in mente come teatro, addio…o per fortuna. Una cosa però è certa: salta il tessuto narrativo; salta, dico, all’origine. Penso al romanzo; ma nei suoi confronti mi sento in crisi”.

Ecco. Mi accingo a fare teatro, come sempre, e a farlo con un testo non narrativo, ma pensato già, “addio… o per fortuna”, per un corpo e una voce, per un tempo vissuto, per uno sguardo che divora il presente dell’offerta sacrificale e la vive là, dove si spezza il pane che si fa corpo, dove si beve il vino che si fa sangue. Penso a una donna, penso a un’attrice dalla grande passione fisica che dev’essere combattuta fino allo stremo. Penso alla testa mozzata del Battista e pensando a quella testa lo immagino divorato, fatto a brani dalla regina così come le Menadi con Penteo. Penso a queste parti di corpo smembrate, numerate, laddove il Battista negandosi nella sua totalità, nell’unicità dell’essere corpo d’amore, si condanna a essere per sempre oggetto. Parti che diventano protesi da indossare o da usare come gioielli rari: una dentiera, una barba finta, un occhio di vetro. Vetrinetta degli orrori, minorata, piccola e repellente rispetto ai miei ricordi giganti del Testori pittore con i suoi pugili, le sue violente orchidee, le sue teste ossessionanti. Penso sì, alla parola che vince su tutto, che occupa gli spazi della rimozione. Penso alla forza politica di un corpo. Penso al teatro, ad abitarlo e poi in qualche modo forse alla narrazione. Penso sì, ma finché non l’avrò fatto…


“addio… o per fortuna”.


Renzo Martinelli


Finalmente Giovanni Testori.


Un incontro evocato più volte nel percorso artistico di questi anni, in cui Renzo Martinelli mi ha diretta in infinite prove.


Un incontro atteso per un tempo lunghissimo, imbandendo la tavola, così come si fa quando si prepara lo spazio per l’arrivo di un ospite importante: studio del dettaglio, purificazione, cura. Del cuore, apertura.


Attendere la lingua di Testori e il corpo a corpo con la sua anima di carne e sangue ha significato innanzitutto masticare le proprie radici linguistiche in tanti altri spettacoli fino a farne poltiglia. Stupefarsi ogni volta reinventando il Verbo.


Federica Fracassi

 

Premio nazionale Franco Enriquez 2017 – miglior attrice Federica Fracassi
Finalista premio Ubu 2017 – miglior attrice Federica Fracassi