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TESTO A PUNTATE

“Testo a puntate” è un testo a puntate, non c’è molto da aggiungere. Un’idea nata sulla scia dei romanzi d’appendice, definizione d’antan e abbastanza fuori moda che identificava l’uscita cadenzata, su quotidiani o riviste, di romanzi inediti. Pinocchio di Collodi, per dirne uno. Madam Bovary di Flaubert, per dirne un altro. Ci siamo immaginati, quindi, di riproporre qui (in via digitale, al passo coi tempi) la medesima formula con piccole variazioni. Gli autori saranno tanti, non uno. Qualsiasi forma di scrittura sarà permessa. Le uscite seguiranno un calendario preciso, così da creare la giusta aspettativa che una buona lettura necessita. Unica regola, seguire il filo del racconto. Titolo: Azione pubblica. Inizieremo verso l’estate, siamo ancora di quelli che credono si legga di più sotto l’ombrellone. (Anche se va bene pure il divano, certo.) Chi scriverà?Vi sveleremo i nomi pian piano: per un buon feuilleton il mistero è tutto. Vi teniamo aggiornati!

  1. Antagonista

    Testo a puntate è un progetto di Teatro i. Una rete tra autori ed autrici consolidati, una rete collaborativa, orientata ad una scrittura collettiva, uno spazio libero di creazione autorale, che porterà ad uno scritto composto a più mani. Un esperimento che si avvicina all’idea di romanzo d’appendice.

    Tanti autori e tante autrici quante parti di testo da leggere, una puntata alla volta, un appuntamento regolare da segnare sul calendario.

     

     

    Antagonista.

    Questo è il titolo e il tema del nostro Testo a puntate. Anti-agonista. Qualcuno (o qualcosa) che lotta contro qualcun altro (o qualcosa d’altro). Oppure qualcuno (o qualcosa) che è contro la lotta in sé, qualcuno o qualcosa che si rifiuta di entrare nell’agóne, di partecipare alla competizione, qualcuno armato, qualcosa di sbagliato, qualcuno che si ritrae, qualcosa che si slancia, contro.

    Antagonista può essere un ruolo, antagonista può essere un modo, antagonista può essere un contesto, un linguaggio, un esercizio di libertà contro un condizionamento, una regola, un fatto, un altro da sé. L’antagonista può essere perfino il protagonista di qualcosa, un Bartebly che preferisce di no, uno Straniero davanti al sole, persino un Amleto, a guardar bene.

    Antagonista è un pensiero che dubita, che osa, che si apre all’altro accogliendo o contestando, esattamente come faranno le autrici e gli autori coinvolti.

     

    11 gli appuntamenti alla lettura, uno ogni due settimane, un testo a tappe che si comporrà un pezzo alla volta. Poche regole, quasi nessuna, se non quella di seguire il filo lasciato dalla scrittura precedente, senza per questo necessariamente accordarvisi.

    Non sarà un testo teatrale né un romanzo. In effetti, non sappiamo ancora cosa sarà.

    Ma di questo non ci preoccupiamo, anche non saperlo ci pare antagonista.

    Francesca Garolla e Federico Bellini

     

     

    Autrici e autori coinvolti (in ordine di pubblicazione):

    Francesca Garolla e Federico Bellini – 28 ottobre

    Tatjana Motta – 11 novembre

    Fabio Pisano – 25 novembre

    Riccardo Favaro – 9 dicembre

    Magdalena Barile – 23 dicembre

    Angela Dematté – 6 gennaio

    Matteo Luoni – 20 gennaio

    Fabrizio Sinisi – 3 febbraio

    Valentina Diana – 17 febbraio

    Industria Indipendente – 3 marzo

    Chiara Lagani – 17 marzo

     

    progetto nell’ambito delle attività di Fabulamundi Playwriting Europe

  2. Puntata 1

    Federico Bellini / Francesca Garolla

    La signora camminava davanti a me, testa grigia e passi tra altre teste e altri passi. Si è fermata. Ha tolto con cura dei rami secchi da una siepe di un cancello di un palazzo qualunque.

    Ho pensato, guarda, c’è chi tiene alla bellezza di tutti, alle cose che migliorano il tempo, a che lo sguardo si appoggi sull’armonia e non sul disordine, guarda.

    Ho pensato, no, io no, non lo faccio.

    Poi l’ho vista entrare nel cancello di quella siepe di quel palazzo.

    Il suo palazzo.

    Ho pensato, c’è sempre dell’interesse nella bontà.

    E l’ho trovato un pensiero rassicurante.

    Non vorrei dirlo, non avrei dovuto dirlo, ma quel palazzo è anche il mio.

    Uso il possessivo in modo improprio, perché non ha nulla di mio; non ho deciso il colore della facciata, non ho scelto la forma e l’anonimo grigio del cancello, non avevo notato, fino a poco tempo fa, la siepe dietro il cancello.

    Perché devo appropriarmi della sua mano su quei rami, perché ho subìto immediatamente il fascino e l’arroganza di quel tentativo di restituire una stupida perfezione allo stato delle cose?

    Ecco, ora, sì, ora l’ho persa. Finalmente. È scomparsa nel suo palazzo.

    Da qui, ed era ora, posso non vederla, e lo trovo un pensiero rassicurante.

    E questo perché, lo ammetto, trovo sempre rassicurante scoprire che una cosa non mi appartiene. Che si tratti di un cancello o di una siepe o di una certa insopportabile cura verso il mondo (del resto nemmeno quello posseggo, il mondo) io preferisco non dovermi occupare.

    E di quello che non hai, di certo non ti occupi. Che meraviglia.

    Da qui, credo, il mio misto di stupore e momentanea ammirazione per quella vecchia. Una persona che non possiede, eppure ha cura,

    Fortunatamente è stato solo un attimo. Lei considera di sua proprietà questo palazzo, cosa che non condivido ma certo non posso controllare, e quindi sistema la siepe, non è diversa dagli altri.

    Rimane, però, che sia diversa da me. Io ho piena consapevolezza di quello che non ho e, quello che non ho, lo scelgo.

    Lo scelgo quotidianamente, lo sai, e sai anche che questo è il presupposto della nostra relazione.

    Mi hai stupito, infatti, quando mi hai parlato del tuo cane. Tanto per iniziare non credo possa essere tuo, in senso letterale, intendo, in generale i cani appartengono alla razza dei cani e, in particolare, alle loro madri cagne che li vanno a partorire in qualche angolo. In secondo luogo, trovo che sia un vero attentato al patto che abbiamo firmato, alla nostra condivisa e voluta “legge del non possesso”, allo stile di vita che abbiamo scelto e, cosa ben più grave, alla nostra unicità.

    Io e te ci siamo incontrati e ci siamo compresi esattamente nel momento in cui ci siamo incontrati.

    Io non ho, io non ti ho. Io non ti ho perché io non ho.

    Questa è la prima regola. Che tu abbia deciso di infrangerla per un cane mi addolora e mi affatica.

    Ma ti dirò, se è vero che intellettualmente mi affatica è anche vero che so perfettamente che il dolore sarà del tutto transitorio.

    Ci si duole per ciò che si è perso, e quindi si è posseduto, ma io so di non possedere nulla, nemmeno la legge che ho scritto.

    In ogni caso, al di là della mia innegabile lucidità e capacità analitica, in questo istante così dirompente anche grazie al (fortunatamente) non gratuito gesto della vecchia signora, qualcosa mi sfugge.

    E quello che mi sfugge sei tu.

     

    Certo, se ti fosse sfuggito quel particolare, mio dio, quel particolare “linguistico” (non trovo di meglio), non staremmo qui, ora, a rinfacciarci. Lo vedi, la mia lingua si sta imbruttendo, eppure hai notato quello stupido, per me insignificante possessivo. Sì, in effetti ci stiamo rinfacciando. Che significa, esattamente? Non credo abbia a che fare con l’insultarsi reciprocamente con le solite rivendicazioni. Mi è nata come l’impressione (non so dirlo meglio, la mia lingua si sta imbruttendo), l’impressione, dicevo, che ci rinfacciamo di proposito, io mi rinfaccio in te e tu in me. Non riusciamo neanche ad essere veri antagonisti. Sì, ora tu dirai che sono cazzate da filosofo a buon mercato (uso frasi fatte, la mia lingua si sta imbruttendo), quelle battaglie sulla lingua che tanto piacciono ai francesi e ai circoli del dopo-lavoro letterario. Il punto è. Volevo dire: il punto centrale è. Voglio dire: come posso sfuggirti se dici di non avere nulla? Se vale la legge del non possesso che sia legge fino in fondo. Non posso che sfuggirti, non trovi?

    Certo, io ho un cane, maledetto possessivo, non farci caso, e una vecchia di fronte. Tutti i giorni. Anche ora.  O meglio, guardo un cane e una vecchia. Tutti i giorni. Anche ora. Perché non dovrebbe possedere nulla? Perché non dovrebbe avere, anche lei, una qualche forma di interesse? Chi siamo noi per decidere che un atto sia gratuito? Guardala meglio. Eccola di nuovo. Sono sicuro che anche tu sei alla finestra. Penultimo piano, in quel palazzo che credevamo nostro.

     

    La signora con i capelli grigi che abitava nel palazzo con il cancello grigio con la siepe verde con i rami secchi si trovava lì da poco più di due mesi. Nella sua vita aveva cambiato circa diciassette case, del numero preciso non era certa nemmeno lei. La prima era stata quella dei suoi genitori, la seconda quella dove aveva abitato con la sua amica Laura, la terza quella condivisa con Antonio (la convivenza, qui, era andata per le lunghe), tra la quarta e la tredicesima aveva perso il conto perché i traslochi erano stati troppo frequenti e troppo repentini, così come l’alternarsi delle vie e dei palazzi e dei cancelli. Sull’andare e venire delle convivenze e delle solitudini, poi, preferiva non soffermarsi.

    La quattordicesima comunque era stata una bella casa. La quindicesima e la sedicesima anche. La diciassettesima invece, quella attuale, la detestava.

    Innanzitutto, era perennemente disturbata dall’abbaio di un cane di cui non era riuscita ad identificare il o la proprietaria. Se ci fosse riuscita, e sperava di riuscirci, sicuramente avrebbe trovato il modo di farlo tacere, il cane. Inoltre, non le piaceva nulla, trovava che l’ingresso fosse triste e puzzolente, l’ascensore non lo usava mai (chissà chi aveva schiacciato i pulsanti prima di lei) e il giardino era…  Ecco, non sapeva nemmeno come definirlo, il giardino. Era un fazzoletto di terra e catrame, un aborto di giardino, un abominio di giardino, un insulto alla bellezza di tutti gli altri giardini del mondo.

    Perciò era ossessionata dalla siepe. Almeno la siepe doveva essere in ordine, pulita, la siepe non doveva seccare, non doveva perdere le foglie, doveva resistere e ripararla dalla vergogna di vivere in un così orrendo palazzo con quell’orrendo cancello con quell’osceno giardino.

    Così se ne prendeva cura, nei limiti del possibile, lo faceva per sé, non per gli altri, degli altri non si era mai molto interessata e non aveva intenzione di farlo ora, lo faceva perché teneva al decoro, al suo decoro. E lo faceva anche perché, mentre strappava i rami secchi, poteva curiosare nelle cassette delle lettere che, per una ragione a lei sconosciuta, erano state posizionate proprio lì, un po’ nascoste dalle foglie, agganciate alle sbarre del cancello, senza nessuna riservatezza, esposte alle pubblicità e ai suoi occhi.

    Era stato così che aveva scoperto che la cassetta ventidue si poteva aprire senza chiave. E, dato che si poteva aprire senza chiave, non doveva certo sentirsi in colpa quando, per passare il tempo, prendeva una lettera da leggere.

    Si era ritenuta fortunata, tra l’altro, in quella cassetta c’erano sempre lettere da leggere. Lettere curiose, lettere senza francobollo, lettere il cui mittente era solo A.

    E il cui destinatario era, ugualmente, sempre e solo A.

     

    Nonostante tutto, non bisogna pensare che lei si occupasse di numerologia, o che facesse un qualche affidamento sulla cabala o affini. Contare e stabilire un numero per le cose o gli eventi era semplicemente, per lei, un fatto naturale. Quell’abitudine che da bambina la divertiva, e che creava, in qualche modo, una distanza tra lei stessa e il mondo, era ora diventata poco più che un esercizio d’allenamento per la memoria. Nella solitudine, talvolta, i numeri sostituiscono le parole nel dare un senso alle cose e tenerle con sé. La sequenza che si era appena stabilita nella sua mente, il diciassette insieme al ventidue, non le provocava che una strana ironia nei confronti di quegli  anziani, magari, come si dice, suoi coetanei,

     

    Ho pensato che l’età è un pregiudizio. Niente di nuovo, mi dirai. Sì, ma…accorgersene davvero, essere sorpresi da questo pensiero, all’improvviso di una giornata qualunque, ti rende…sì, vecchio. Non ho altre parole per dirlo. Vecchio come

     

    quegli anziani che si sarebbero precipitati a sfidare la sorte in qualche tabaccheria a portata di piedi, tornandosene a casa inevitabilmente sconfitti. Del resto, perché avrebbe dovuto giocarsi due spiccioli su un numero così “ontologicamente” sfortunato come il diciassette, se, in quella precisa circostanza, lo schifo di ultimo appartamento e la sua astrazione numerica parevano persino confermare le credenze della superstizione? No, tutto questo non faceva il caso suo. Piuttosto le interessava, ora, la singolare associazione tra mittente e destinatario. Non tanto il fatto che un mittente potesse essere il destinatario delle sue stesse lettere, certo, questo è, per certe persone, naturale, quanto la scarsa cura, a suo avviso, che l’altro umano aveva riposto nell’assegnare a se stesso quella A, come se non avesse avuto tempo per proseguire nell’alfabeto, o, peggio, come se, per scarsa immaginazione, si volesse indicare come “Anonimo” e rinunciare allo sforzo di darsi un nome. Ecco, si disse, questo è inaccettabile, quanto questo palazzo, quest’ultimo stupido trasloco, questa città, e, fino a poco fa, questa siepe. Così, mentre era arrivata ad una sorta di conclusione di quel futile ragionamento, fu sorpresa ancora una volta dall’abbaiare del cane.

    Guardò in alto, ma fu di nuovo assalita da un altro pensiero che la distolse da quel fastidio, ovvero, per l’esattezza, quanto è stupido pensare che un vecchio debba affezionarsi a un cane, quanto è ridicolo anche supporre che l’abbaio di un cane non sia altro che, appunto, un fastidio, l’ennesima imperfezione naturale che, ora, ha reso inutile anche la cura della siepe.

    Tornò a guardare in alto, e, senza neppure accorgersene, cominciò a dare un numero a tutti gli appartamenti che vedeva di fronte a sé. Si fermò al settimo appartamento, interno A. Sorrise, al contempo stupita e fiera del suo intuito, rassicurata dalla sua infantile attitudine numerica, dalla sua capacità di vedere dettagli che a tutti gli altri rimanevano oscuri, nascosti. Sorrise.

    Fino a quando non sentì suonare il citofono.

    Ecco, il citofono non se lo aspettava. Nessuno sapeva dove abitava, a parte il postino (o forse neanche lui, perché posta, lei, non ne riceveva), di amici ne aveva avuti, ma adesso non ne ricordava nemmeno il nome, di parenti, conoscenti, nemici o pretendenti men che meno.

    Citofono.

    Non rispondo.

    Citofono.

    Che diavolo vogliono.

    Citofono.

    Oddio, sanno che abito qui (nello schifo di palazzo ascensore cancello giardino).

    Citofono.

    Si? Chi è?

    Signora, senta, il cane è suo?

    No.

    (Aspetta, di quale cane sta parlando?)

    Scusi, intende il cane che si sente abbaiare spesso?

    Non lo so signora, intendo il cane che si sente abbaiare adesso e scorrazza qui in giardino che è proibito lasciare i cani liberi nel giardino condominiale intendo il cane che sto tenendo per il collare e che non mi risulta appartenere a nessuno perché fino a quando lei non è venuta ad abitare qui un cane in giardino non si era mai visto.

    Allora, il cane è suo o no?

    Sì, è mio.

    Pausa.

    Signora?

    Non aveva senso, non aveva alcun senso, ma le era venuto così, d’impulso, quasi le pareva di non averlo detto eppure lo aveva detto. Il cane non era suo, prima del citofono, ma da quel momento lo era. Per un semplice pronome: mio. In fondo era solo una questione linguistica. Tutto è una questione linguistica, pensò, come per quelle lettere, le lettere da A a A. Che erano diventate sue nel momento in cui le aveva trovate incustodite in quella cassetta delle lettere incustodita. Lettere senza nome, senza firma, senza amore. Lettere senza padre (la signora amava i parossismi linguistici). Proprio come il cane, senza guinzaglio, senza padrone, senza cura. Senza la qualifica di un possessivo.

    Ah, bene, signora. Allora se lo venga a prendere, il suo cane.

    Pausa.

    Signora, c’è ancora?

  3. Puntata 2

    Tatjana Motta

    CANE

    Vorrei che tu lo sapessi: ti sbagli. Ti faccio un esempio: quando torniamo a casa dopo aver fatto una corsa al parco, tu hai sudato molto e dovresti farti una doccia calda, invece come prima cosa mi pulisci e mi asciughi le zampe con un asciugamano che tieni lì, vicino all’ingresso, appallottolato sotto il termosifone. Io sto lì e me lo lascio fare. Credo piaccia anche a te. Poi getti l’asciugamano umido lì per terra e vai a spogliarti. Incurante del fatto che qualcuno potrebbe dire che quell’asciugamano puzza di cane, di cane bagnato, che è un odore tutto particolare, per alcuni. Forse ti piace il mio odore nell’ingresso. Come ti piace che il divano sia coperto da un sottile strato di peli, che resiste. Ti piace sapere che qualche ospite potrebbe trovarlo ripugnante, mentre qualche altro ospite potrebbe non notarlo nemmeno. Un modo per distinguere gli ospiti che torneranno da quelli che non torneranno, quelli che inviterai volentieri da quelli che sentirai soltanto al telefono. Ma è da tanto che non ricevi ospiti, e stiamo solo io e te. Tu non dici noi, dici io e te. Ma io credo che segretamente ti piaccia anche pensarci come un’unità. Ti piace che io ti guardi mentre mangi, mentre ti tagli le unghie dei piedi, mentre non fai niente, mentre ti senti uno schifo. A volte ti senti uno schifo. Io lo sento. Pensi che io sia intelligente, lo dici sempre, ma sei tu a stabilire in cosa dovrebbe consistere la mia intelligenza. In cosa ti assomiglio, in cosa ti soddisfo. Eppure ti stupirebbe scoprire il livello di coscienza e comprensione delle cose che posso raggiungere. Non mi riferisco solo al pensiero, io comprendo tutte le lingue, perché comprendo con l’olfatto, intuisco le cose attraverso la temperatura (quella della tua pelle, ad esempio, io posso percepirla anche a distanza), avverto tutti i movimenti, sento in ogni singolo pelo.

    Anche tu mi conosci e mi senti. Sai quando sarò felice e quando avrò paura. Sai già al primo lampo, che quando arriverà il tuono salterò in piedi sul divano e tu dovrai venire a stringermi forte, perché quando scoppia un temporale io sento tutta la città vibrare, e tutta la campagna brillare, e tutto il pianeta fremere, tutto quanto risuona nel mio piccolo corpo, è veramente troppo e non posso reggerlo. Mi comprendi più di quello che pensi. Ho lasciato un segno dentro di te. Quando dormi spesso mi sogni e ti chiedi che parte di te io rappresenti, ma non trovi una risposta perché non c’è. Se mi allontano fai un incubo e stringi il cuscino, ma non ti basta. Se scappo lontano, non puoi dormire per via del vuoto. Perché io posso scappare, questo lo sai. Tu mi lasci sempre la possibilità di farlo, ma ti chiedi mai perché torno? Alla mia prima fuga, ho corso più veloce che potevo, non per assaporare la libertà, come forse crederai. Io so già cos’è la libertà. Anche se devo contraddirti: la mia libertà non è poter uscire quando voglio, la mia libertà è scegliere, io scelgo liberamente di appartenere a qualcuno.

    Quella sera hai lasciato la porta aperta mentre scendevi a buttare la spazzatura, lo fai apposta, perché io possa seguirti, incurante del fatto che mentre non ci siamo qualcuno potrebbe entrare e rubare qualcosa, dai cassetti o dal frigo. Ma questo a te non importa, dici di non soffrire se ti portano via qualcosa, quel qualcosa non è mai stato tuo, dici. Giù di sotto ho sentito, senza guardarti, che entravi nello stanzino dei bidoni della spazzatura, ho sentito l’odore farsi più forte mentre aprivi e chiudevi la porta. Poi ho sentito che tornavi in cortile e mi guardavi. Sentivo i tuoi occhi puntati addosso. Non hai fatto una piega quando hai visto che facevo la pipì contro la siepe, annusavo il percorso fino al cancello di ferro (che qualcuno aveva lasciato aperto, qualcuno che io non conoscevo, una donna anziana forse? O forse no, una ragazza con i capelli puliti e le mestruazioni, che usciva di corsa, incurante del fatto che qualcuno potesse scappare), uscivo fuori sulla strada e mi mettevo a correre più veloce che potevo.

    C’era traffico, troppa luce e troppo rumore. Troppo. Allora istintivamente ho corso verso il limite della città, verso il silenzio, dove i palazzi diventano capannoni con ampi parcheggi, e poi più oltre, dove i parcheggi dei capannoni diventano campi e dove la strada è costeggiata dai fossi. Ho incontrato ratti e rospi e bisce. Ci siamo ignorati a vicenda. E poi ho trovato quel posto. Te lo ricordi.

    Ho attraversato un grande parco deserto con delle cave piene d’acqua. Sentivo altri abbaiare, ma erano lontani da me. C’era un altro odore, che io sentivo. Un odore che mi respingeva e mi attraeva. Veniva da laggiù, dalla casa del contadino, quella cascina semi distrutta, non lontana dalla periferia della città, sopravvissuta per miracolo, che ricorderai bene. Dal suo odore indovinavo che era lì da un sacco di tempo, che era stata abitata da tanti corpi, che c’erano state nascite e morti. Esisteva ed era ancora abitata e stava lì a sfregio, guardando la città farsi sempre più vicina con l’aspetto di qualcuno che ringhia per tenere lontano chi non gli piace. Dietro la casa c’era il pollaio. E, anche questo te lo ricordi, lì ho sbranato per gioco diciotto galline.

    Il mio muso era coperto di sangue e piume.

    Il contadino voleva spararmi, ma ha solo sparato in aria per spaventarmi; quella sera c’era anche sua figlia. Mi hanno chiuso dentro il recinto del pollaio e hanno chiamato il canile, perché a quel tempo ero ancora senza collare. E al canile sono risaliti a te, questa è la tua prima contraddizione, perché il chip nella mia collottola portava al tuo nome, diceva che io ho a che fare con te; ovunque vada, mi riporteranno da te. E se non ti appartengo, visto che tu non possiedi, perché mi hai fatto registrare all’anagrafe canina allora? Al canile dicevano che non mi avevi dato un nome, che il microchip indicava i tuoi dati e nessun nome, o meglio solo il nome con cui mi chiami tu: Cane.

    Poi c’è stata la tua seconda contraddizione. Quando prima di rientrare a casa hai deciso di passare dal contadino perché ti sembrava giusto ripagare le diciotto galline. Lui ti guardava storto, avete contrattato sul prezzo, ha detto che la prossima volta mi avrebbe sparato sul colpo e poi mi avrebbe scavato una buca, senza nemmeno telefonarti. Le persone mi amano follemente a prima vista, mi odiano o mi temono: non ci sono mezze misure. Ti volevo chiedere: perché hai pagato le galline? Se, come dici, tra di noi non c’è stato che un incontro casuale, le nostre vite si sono intrecciate così, per una coincidenza, ma per quanto ti riguarda potremmo anche dividerci – se è così allora tu non dovresti rispondere delle mie azioni, giusto?

    Mentre guidavi non ti dava fastidio che io stessi sul sedile del passeggero e qualche volta mi hai accarezzato la testa. Tu mi accetti quando ho voglia di giocare, quando appoggio la mia testa sulla tua coscia, ma in quel momento ho capito che puoi accettarmi anche quando uccido dei volatili per gioco. Ho lasciato un segno dentro di te. Che tu lo voglia o no. E credo di aver capito anche perché dici che non vuoi avere. Perché se tu hai me, in un certo senso io ho te. Ma è già così, ti sarebbe bastato solo ammetterlo. È per questo che non inviti mai ospiti e non vai a trovare nessuno? (Se ci andassi, anche senza di me, io poi sentirei l’odore di quegli altri sul tuo cappotto, sulle tue dita, fra i tuoi capelli). Così dici che i cani non appartengono a nessuno, se non alla razza dei cani e alle loro madri cagne. Dici che io non ti appartengo – ti è sfuggito al canile, mentre cercavi di spiegare quella cosa del nome. Così siamo due libere creature, hai detto. È arrogante da parte tua; non lo sai che questa è una cosa che non puoi scegliere tu al mio posto?

    Le nostre strade non si sono incrociate per puro caso come credi, sono io che ho scelto. Ho scelto di stare con te, di condividere con te l’eternità. L’ho scelto secoli fa, millenni fa, quando ho smesso di essere un lupo per prendere la forma che tu desideravi. Credi che sia stata l’umanità, a umanizzare i cani? Un po’ arrogante, da parte tua.

    Una volta ti ho sentito dire che un cane non ha il senso del tempo, che quando esci di casa il cane che ti ama non sa dire se ritornerai, quanto durerà l’attesa e se avrà mai fine. Questo può essere vero, te lo riconosco: un cane non conosce nulla del futuro. Ma un cane conosce benissimo cos’è il tempo. Un cane porta dentro di sé la traccia del ricordo di tutti i cani che ci sono stati prima, sotto forma di istinto, ed è l’istinto che ci fa scegliere.

    Poi c’è stata la tua terza contraddizione, mi hai comprato un collare viola e me lo hai messo al collo, così com’era, con una targhetta che dice solo “cane”, senza numero di telefono.

    Dopo la prima c’è stata qualche altra fuga, ma non è successo nulla di particolare, salvo una piccola cosa da niente; comunque ho sempre fatto ritorno senza che tu venissi a recuperarmi. Quindi forse avrai pensato che anche questa volta le cose sarebbero andate così. Ma ti sbagli, le cose questa volta sono diverse. Non poteva più continuare così. Io lì ad abbandonarmi completamente a te, mentre tu ti rifiuti di abbandonarti a me. Mentre tu ti rifiuti di riconoscere quello che c’è stato tra di noi. Per questo, e non perché non ti amo, ma perché io e te amiamo in modo diverso, ho dovuto lasciarti. È proprio così. È finita e non so cosa potrà farmi decidere di tornare indietro, nonostante il tuo sforzo. Perché lo sento, che oggi hai fatto un grande sforzo.

    Mi chiedo come hai fatto a trovarmi sul colpo, a sapere dove fossi. Come hai fatto? Ho la sensazione che non te l’abbia detto nessuno, nessuno si è messo in cerca di te.

    Quando ho deciso che era finita ho messo in atto il mio piano: scendere in cortile e cominciare a fare un bel casino, come non ne avevo mai fatto, scavare buche, farla ovunque, strappare radici, abbaiare furiosamente, lasciandomi completamente andare contro le biciclette e i motorini sulla strada, farmi afferrare dal collare dal primo inquilino spazientito, farmi condurre all’appartamento della signora.

    Ho la certezza che lei pensi di aver improvvisamente scelto di possedermi. Certamente non si sa spiegare come, un attimo prima non mi conosceva e un attimo dopo diceva sì, il cane è mio. Lei crederà di averlo detto istintivamente, di averlo scelto guidata da una forza sconosciuta, quella che a volte ci fa fare azioni incomprensibili in grado di spostarci violentemente da dove siamo e catapultarci lontano, dove non potevamo immaginare. Come accanirsi su quelle diciotto galline. In parte è così, lo riconosco. Ma in parte sono io che l’ho scelta. Scusa, questo ti farà soffrire quando te ne renderai conto. Sono io che ho fatto la prima mossa, ho messo in moto le cose fino ad arrivare da lei. D’accordo, un cane non sa nulla del futuro e non sapevo come sarebbe andata a finire, ma sapevo che così facendo tutto sarebbe cambiato.

    E c’è anche un’altra cosa di cui ti renderai conto appena mi vedrai: io non sono un cane, come tu mi hai chiamato, ma semmai una cagna. Lo capirai subito, appena mi vedrai qui, nel mio nuovo appartamento, con lei che si prende cura di me, mentre mi trascino con fatica dal soggiorno alla cucina e dalla cucina all’ingresso con questa mia pancia gonfia di cuccioli.

    Adesso tu hai finito di salire le scale, non prendi mai l’ascensore, sento il tuo respiro e il sottile strato di sudore sulla tua fronte, anche per la tensione che stai provando. Deve essere stato difficile per te deciderti a farlo. Venire a cercarmi di tua iniziativa in questo appartamento, da una donna per te sconosciuta. Tu che non vai mai ospite da nessuno. Tu che non conosci il nome di nessun vicino. Ti ho forse dato una spinta per fare qualcosa che non volevi fare? Penserai che non ti sono fedele, ma non ammetterai di averlo pensato. Siamo nemici adesso? Forse qualche volta ci hai viste scendere insieme in cortile per i bisogni, io con lei. Non ho mai visto la luce accesa in casa tua, e non ho mai sentito che tu fossi in zona. Se ci hai viste in cortile, perché hai aspettato qualche settimana, prima di venire a cercarmi? Temo che sia troppo tardi. Lei è di là che taglia una zucca. C’è la radio accesa. Ora sei qui proprio dietro la porta, io ti sento e aspetto solo che tu metta il dito sul campanello e suoni. Non so cosa vi direte, non so se ti farò le feste o mi nasconderò dietro le sue gambe, non so decidere e il cuore mi batte all’impazzata. Lei riempie d’acqua una pentola, poi accende il fuoco. Tu ancora non ti muovi. Lei accende una sigaretta. Hai finalmente deciso e appoggi il dito sul campanello, aspetti qualche secondo. Eccoti: il campanello suona

  4. Puntata 3

    Fabio Pisano

    Driiiiin.

    Nessuna reazione.

    Driiiiin, driiiiin.

    Ancora niente.

    Ci sono dei momenti in cui il suono

    sembra essere assoluto.

    Quel drin, in questo momento,

    è uno di quei sembra.

    Io ansimo e scondinzolo.

    Perché il campanello

    porta sempre qualcosa di nuovo.

    E noi amiamo,

    qualcosa di nuovo.

    Perché non apre?

    C’è nessuno?

    Sento Cane ansimare dietro la porta.

    Non so se sia realmente dietro la porta, ma sento il suo ansimo.

    È un cane, Cane, che ansima molto.

    Qualcuno m’ha persino ripreso quando l’ho portato da qualche parte.

    Quelle rare, rarissime volte che ho avuto ospiti a casa,

    il nostro disquisire era sempre sovrastato dal suo ansimo.

    Credo non si parli più in casa mia,

    a causa o per fortuna del suo ansimo.

    Lo sento.

    Sento solo lui però.

    Che sia solo?

    Percepisco una strana eccitazione percorrermi le braccia.

    Non ho mai fatto caso alle braccia,

    se non quando sono afflitte da una sensazione di stanchezza,

    ad esempio per la spesa.

    La spesa portata fin su, per le scale.

    Io non prendo certo l’ascensore.

    L’ascensore l’ho sempre considerato l’anticamera della morte.

    Una sorta di prova generale prima della bara.

    So che è macabro, ma ognuno di noi ha le sue paturnie,

    diciamocelo.

    La mia o meglio, una delle mie, è l’ascensore.

    Tornando alle braccia, forse è la prima volta che percepisco

    questo formicolio che me le fa sentire vive, protagoniste.

    Non ho mai badato all’importanza delle braccia.

    Sì le ho usate, le uso tutt’ora.

    Come chi sta raccontando le usa per scrivere, per battere

    sulla tastiera di un qualche computer personale.

    Perché non sono certo le mani, in quel caso.

    Ma le braccia, a fare tutto il lavoro.

    Il formicolio che chiamerò eccitazione è inspiegabile.

    Forse è un formicolio di premonizione, non lo so.

    Fatto sta che sto impalata qui fuori e nessuno apre.

    Se solo Cane avesse le braccia be’,

    sicuramente m’avrebbe aperto.

    È un cane ordinario.

    Sa voler bene, sa odiare. E sa dimenticare.

    Non so se sia maschio o femmina io / io solo ora /

    solo adesso me lo chiedo.

    Credo sia maschio, ad ogni modo.

    E ad ogni modo, risuonerò.

    Devo farlo per forza, perché

    non posso andarmene da qui senza averci

    provato.

    È un po’ il difetto di ognuno di noi.

    Andarsene senza averci provato.

    Stavolta no,

    ne farò tre; tre scampanellii uno dietro l’altro.

    Magari chi ci vive,

    è fuori il balcone che dà su questa città infernale.

    E per il troppo traffico, per i clacson per le urla per i fumi,

    non avrà sentito il mio delicato drin.

    E nemmeno il mio perentorio drin drin.

    È una città troppo caotica, diciamocelo.

    Non ti lascia pensare.

    Quando sei per strada e a me capita spesso /

    capita quando scendo da sola o quando devo rincorrere

    Cane ch’è scappato da qualche parte /

    quando sei per strada devi attivare tutt’una serie

    di recettori che io chiamo impropriamente

    recettori della sopravvivenza.

    Non esistono, credo, ma rendono l’idea.

    Sono quei recettori che ti permettono di evitare che

    una moto ti tranci di netto le dita dei piedi o che un’automobile

    magari vuota, magari senza nemmeno il conducente,

    un’automobile che va da sola

    ti arroti e amen e poi ti fai una bella degenza di settanta o

    novanta giorni in ospedale.

    Quei recettori lì sono salvifici.

    Sono quei recettori che ci rendono ancora animali.

    Magari però quando sei affacciato a fumare una sigaretta,

    quei recettori riposano e così tutto il tuo corpo.

    Magari quando sei affacciato a fumare,

    anche i recettori uditivi / chissà se esistono / saranno

    a riposo.

    E così io sono costretta a /

    / apro.

    Avevo la sensazione che potesse suonare di nuovo.

    È che a me il campanello proprio non mi piace.

    Non so nemmeno se definirlo oggetto ma se tale fosse,

    è un oggetto che direi quasi di detestare.

    Ce l’ho perché in epoca moderna come puoi non avere

    il campanello.

    Sarei anacronistica e già molto di me,

    è anacronismo puro.

    Ma potessi decidere, tornerei al caro toc toc di molti

    anni fa.

    È romantico.

    Ma soprattutto, è discreto.

    Io amo la discrezione, amo che qualcosa si presenti

    in punta di piedi.

    Non so se sia l’età o se è sempre stato così.

    Non lo ricordo; perché con l’età inizio a lasciar andare i ricordi.

    Ad esempio non ricordo se ci fosse una siepe,

    nei pressi del cancello di casa.

    O se l’ho soltanto immaginata,

    da quando vivo qui.

    Qualcuno dice / calunniatori di sicuro / qualcuno

    dice che ci tolgo spesso dei rami secchi,

    da quella siepe.

    Ma io non lo ricordo.

    Non ho aperto a caso, sia chiaro.

    Avevo già sentito il primo scampanellio.

    Solo che quando fumo non voglio essere disturbata.

    Non mi piace fare altro, mentre mi godo la mia sigaretta.

    Ne fumo una, soltanto una al giorno.

    E non mi va che mi si disturbi.

    Sarà perché non ho quello che tutti chiamano “vizio”.

    Il mio è proprio un piacere.

    Quasi una virtù. Fumo per virtù, ecco.

    E quando fumo mi piace isolarmi dal mondo esterno.

    Figuriamoci dal mio campanello.

    La realtà è che quando fumo, non mi isolo volontariamente.

    Tutt’altro.

    Quando fumo probabilmente dentro il mio organismo,

    accade qualcosa.

    Credo sia opera della nicotina.

    Ho letto da qualche parte,

    che la nicotina è vasodilatatrice.

    Ti dilata tutto il sistema vascolare.

    Tutte le vene, le arterie fino ai capillari più infimi del mio

    organismo, si dilatano così che il sangue possa

    scorrere più rapidamente nel mio corpo.

    Probabilmente quella corsa pazza del mio sangue,

    attiva qualche enzima che dentro il mio cervello,

    mi isola.

    Non so se sia così.

    Ma la faccenda non mi preoccupa.

    È una sensazione tutto sommato piacevole.

    Non avevo granché da fare.

    La zucca era pronta, già tagliata.

    Dovevo aspettare che l’acqua bollisse,

    mentre la tivù in sottofondo racconta le solite tragedie,

    che ormai chiamano soltanto drammi.

    Forse le tragedie non esistono più.

    Di fronte mi ritrovo questa giovane donna.

    Ha i capelli lisci e lunghi; il colore è indefinito.

    Quei classici castano chiaro o biondo scuro che non sai mai,

    come siano realmente.

    E come li percepisca la persona che li indossi.

    Tipo questa ragazza, sono certo che se ora esordissi con

    che bel castano chiaro, i suoi capelli.

    Lei con un rivolo di antipatia mi risponderebbe che in

    realtà sono biondo scuro, i suoi capelli.

    Facendomi sentire inadeguata.

    Sarebbe lo stesso se al posto del castano chiaro,

    citassi il biondo scuro.

    Mi redarguirebbe lo stesso.

    È che non c’è più rispetto per i vecchi.

    Ci guardiamo negli occhi.

    Ha gli occhi tristi. Mi ricordano i miei alla sua età.

    Non è mai piacevole ritrovare negli occhi di un altro,

    la tristezza passata. Perché in un attimo te la fa riaffiorare.

    Mi giro, guardo il cane che

     

    / i suoi capelli sono castano chiaro /

     

    / sembra suggerirmi, mentre con la lingua penzola,

    ansima come se stesse per partorire.

    – È che è incinta. –

    – È incinta? –

    – Sì. So che non si vede, ma è così. –

    – È femmina? –

    – È femmina. –

    – Non l’avrei mai / non lo sapevo. –

    – Be’ in fondo, perché avrebbe dovuto? –

    Una situazione assurda.

    È femmina.

    Il mio cane, il Cane con cui mi sono odiata e amata,

    quel cane che m’ha lasciato peli ovunque,

    peli che hanno formato uno strato inamovibile

    sul mio divano, Cane

    che non lascia più ch’entri qualcuno nella mia casa

    e forse nella mia vita,

    è femmina.

    E per di più incinta.

    Come può essere? Per un attimo,

    quando questa vecchia ha aperto la porta e con lo sguardo,

    subito ho scorto Cane alle sue spalle,

    ho pensato che non fosse Cane, ma solo un cane.

    La realtà è che il suo ansimo però è inconfondibile.

    E se vogliamo,

    sono stata io a non curarmi mai del genere di Cane.

    Forse per il fatto stesso d’averlo battezzato “Cane”,

    ho creduto non avesse sesso.

    O forse sarà stata la strage di polli.

    La strage di polli.

    Nel mio immaginario, nel mio a questo punto devo dire,

    povero e scarno immaginario,

    un cane femmina non potrebbe compiere quella strage.

    Forse un cane femmina / mi si perdoni ma proprio non /

    non riesco a dire “cagna”; mi sa di insulto.

    Forse un cane femmina può.

    Una strage di polli è cosa da mastini;

    questo avrò pensato.

    E automaticamente il pensiero è andato al genere maschile.

    Un gesto che determina un genere.

    Questo è davvero, davvero, davvero stupido.

    Come avrò fatto?

    La vecchia sembra molto sicura di sé.

    Appena aperta la porta, l’odore di albicocca dei miei

    capelli puliti s’è scontrato con la sua puzza di fumo.

    La vecchia puzza di fumo.

    Che poi sul suo corpo sembra quasi un odore di antico.

    La vecchia sembra così sicura di sé

    che ora stenterà di sicuro a credere che il cane sia mio.

    Stenterà,

    se io non so nemmeno il genere di Cane.

    E non le darei tutti i torti, non potrei.

    Sento in sottofondo delle voci.

    Non so se c’è qualcuno in casa, non so nemmeno se /

    se dovessi fare qualche colpo di testa, tipo prendere

    Cane in braccio e portarlo via con la forza /

    se venissi inseguita da qualcuno.

    Non so niente di questa vecchia.

    Abita al piano di sopra, proprio nell’appartamento sopra

    il mio,

    eppure non ci siamo mai incrociate.

    Nemmeno parlate.

    Del resto, cosa avremmo da dirci?

     

    Cosa avrei da dirti?

    Mi piacerebbe chiederlo a questa giovane,

    impavida ragazza.

    Non so nemmeno se abita qui,

    forse è una di quelle che vogliono farti firmare

    qualcosa che ti cambi i connotati della

    bolletta della luce,

    o del gas,

    per truffarti e farti pagare tre volte tanto.

    Io sono molto attenta ai consumi; non perché

    sia avara, in realtà non puoi essere avaro,

    se sei povero.

    Ma perché credo bisognerebbe prendersi cura della terra.

    Battaglie sul clima, sull’ambiente e quelle menate lì.

    In fondo mi entusiasmano.

    E sono convinta che se spengo la luce o smorzo il gas,

    sto contribuendo a salvare il mondo;

    ne sono realmente convinta.

    Anche quando lavo i denti io /

    io quando lavo i denti, tengo il

    rubinetto chiuso.

    Questo chiaramente ha giovato anche sulla bolletta

    dell’acqua, che è molto più bassa.

    Lo faccio anche con le stoviglie.

    Quando devo lavare quel misero piatto in cui ho cenato,

    con la forchetta e il coltello,

    anche in quel caso io tengo /

    tengo l’acqua chiusa.

    Insapono ben bene la spugnetta, lavo e poi

    sciacquo tutto in un sol colpo.

    Non so se vengano veramente puliti,

    ma in fondo a chi importa?

    Ci mangio da sempre soltanto io

    in quel piatto.

    La faccia però,

    la faccia di questa ragazza non mi è nuova.

    Devo già averla vista da /

    devo averla vista altrove.

    Non saprei dire dove,

    io non frequento posti,

    se non quelli necessari alla mia sopravvivenza e da

    qualche settimana, alla sopravvivenza di Audrey.

    L’ho chiamata come la mia attrice preferita.

    In realtà la Hepburn,

    non ha fatto nulla per essere la mia attrice preferita,

    se non nascere il mio stesso giorno.

    Sono quelle cose, quei dettagli che /

    non so,

    forse persino la faccia di Audrey la cagna,

    mi ricorda la faccia di Audrey l’attrice.

    Il fatto è che non ho avuto esitazioni.

    Forse in quel citofono,

    dissi di sì, dissi

    Sì, è mio

    solo per poterla chiamare Audrey.

    E mi è andata bene sia femmina, altrimenti per un

    molosso di genere maschio,

    sarebbe stato alquanto ridicolo,

    forse gli sarebbe venuta anche /

    / una crisi di identità,

    ecco cosa.

    Una crisi di identità. /

    / fortuna che ora sei al sicuro, Audrey.

    E a lei? Dove l’ho già vista a lei?

    – In fondo no, perché avrei dovuto. –

    – Le serve qualcosa? –

    – Qualcosa, dice? –

    – Sì, dico, ha bussato per qualche motivo? –

    – Ho bussato per Cane. –

    – Cane? Sarebbe? –

    – Lui. –

    – Cioè lei. –

    – Sì. Ho bussato per lui. –

    – Cioè lei. –

    – Cioè lei, sì. Lei. –

    (Prendo una pausa.)

    (Prende una pausa; la prendo anche io.)

    (È un dialogo faticoso.)

    (So che non è facile.)

    (Lei qui, in piedi, contro la mia porta.)

    (Io qui, fuori la sua porta.)

    (Mi capisci?)

    (Anche volendo, non potrei.)

    – Sto cucinando la zucca. –

    – La / zucca? –

    – Sì. Le piace, la zucca? –

    – No in realtà la trovo / la trovo molto dolce. –

    – È la sua prerogativa. –

    – Sì. –

    – È prerogativa della zucca essere dolce. –

    – In effetti è così. –

    – Com’è prerogativa di Audrey essere una femmina. –

    – Audrey? –

    – Lei. –

    – Ah, l’ha chiamata / –

    – È la mia attrice preferita, sa? –

    – Immaginavo. –

    – Mi diceva che ha bussato per Audrey. –

    – Sì, cioè per Cane. –

    – E il motivo particolare qual è? Ne ha combinata una delle sue? –

    – Quale sarebbe “una delle sue”? –

    – Ah, “una delle sue” è / è un’espressione generica. –

    – Il generico può essere pericoloso. Cela misconoscenza. –

    – Che intende dire? –

    (Ma non rispondo; la cosa mi fa sentire superiore)

    – Che intende dire? –

    – Mi piacerebbe sapere quale sia “una delle sue”. –

    – E perché, di grazia? –

    – Per capire se Audrey è Audrey o è Cane. –

    – Audrey è un cane che ho da / –

    – / qualche settimana, certo. –

    – E lei come lo sa? –

    – Perché io sono di Audrey o meglio, io sono di Cane. –

     

    Ha detto proprio così.

    Ha composto una frase inusuale,

    una frase sintatticamente insolita.

    Il linguaggio è importante.

    Avrebbe potuto dire che io ero sua,

    di sua proprietà.

    O peggio, avrebbe potuto

    mettere quella distanza infinita tra noi

    come quando dice

    io e te e mai noi.

    Invece no.

    Non l’ha detto.

    Non ha usato una espressione

    comune,

    banale,

    e se vogliamo anche improba.

    No.

    Ha detto che lei è mia.

    Io ansimo.

    Ansimo ancora più forte,

    e scondinzolo.

    mentre

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