Loading...

Puntata 10

BUIO I

la nascita è un difetto che la coscienza cerca di aggiustare.

 

Te ne rendi conto la sera verso le cinque. O verso mezzanotte. 10mg e provi a perdere la testa. In un giorno come questo ti sembra di non ricordare più niente. Lanci le monete in aria e guardi le cose cadere, una dopo l’altra, e sai che quello che succederà sarà l’unica cosa possibile. Che ogni cosa che è successa era l’unica possibile. Ci hai messo qualche secolo a cercare di capire chi sei e non è servito a niente.

 

Una volta a settimana cancelli tutte le foto che sono ritratti. La chiami pratica, allenamento alla dimenticanza e le parole più belle le trovi nelle parole di qualcun’altra, di qualcun altro, come per esempio “non mi riferisco a te, non mi riferisco a te, no”.

 

C’è una parte di te che chiami incanto, quando riesci a stare in equilibrio e di solito succede quando compensi ciò che togli con ciò che metti. Di solito era così. Odi il passato remoto, il verbo premere che non ha niente a che fare con la parola premura, ma ti piacciono gli stacchi cinematografici, mettere i punti. Le code quelle no, sono come l’appendicite, quando tutto va a finire là dentro e l’unico modo per liberarsene è tagliare via prima che la punta ti buchi lo stomaco. Ho un paio di forbici tatuate sulla gamba sinistra, ma tu non l’hai mai capito.

 

In un giorno come questo non mi aspetto niente. E tutto quello che ti sembrava importante diventa scarso, e tutto quello che era materiale diventa qualcosa che cerca di aggiustarti, di riparare il difetto. Non so bene come andrà, nelle parole di qualcun’altra c’era scritta la bellezza, in quel passaggio che diceva “non so se è lecito lasciare il posto o chiamare soccorso”. Guarda che non c’è niente di male a sprecare il tempo che non hai.

 

Hai sempre sistemato, puoi dire di averci provato almeno. E pensi che lasciare la sala pulita prima di andare a letto ti faccia sentire meglio. E ti manca la capacità di leggere dentro il bicchiere vuoto, nella cenere delle sigarette, nei pantaloni lasciati per terra. Come se queste cose non avessero niente da dire. Come se ogni cosa che cade deve essere rimessa al suo posto. E tu al tuo. Vorresti che in questa mattina invece ci fosse un ma, come all’inizio della frase, come “ma questa mattina…”. Non so bene come andrà e questo è un bene.

 

In un giorno così ogni lontananza non è una perdita, ma è l’unica cosa possibile. E adesso penso che qualcosa come te è così facile da trovare, ci avevo perso la testa. Come quando pensi di volere tutto e poi è nella sottrazione che riesci a stare, quando ti sfili dagli inciampi, quando capisci che l’incidente e tutto questo esporti non ti poterà da nessuna parte.

 

Oggi il telefono diceva “nessuno si aspetta che tu sappia tutto”. Una mia amica ieri mi ha raccontato che ogni cosa che le capita è un segno. Una sorta di revisione mandata da chissà chi. Io le ho detto che quando al telefono ci diciamo come stiamo lo facciamo sempre parlando d’altro, raccontandoci possibilità e fatti, mai veramente come stiamo. E io passo da parole che non sono le mie e tu mi stai ad ascoltare. Poi rimbalziamo come quella volta quando una macchina ci ha tagliato la strada, quando era tutto rallentato e ho saltato sull’asfalto e in quel giro vedevo il cielo e la terra e mi dicevo adesso c’è un altro giro e poi adesso c’è un altro giro.

 

Solo adesso capisco come è stato stare lì, due o tre secondi che sono bastati ad arrivare fino ad oggi, fino a qui. Quante volte hai pensato di dire che c’era qualcosa in quello che facevi che non ti metteva a tuo agio e non l’hai mai detto. Nessuno si aspetta che tu sappia tutto. E trovi che non ci sia niente di più bello del non sapere come andrà a finire. Non seguo più il meteo da qualche settimana, mi occupo d’altro, mi occupo di occuparmi del tempo che non ho. E lascio le cose cadere, rompersi e trovo nei cocci e nelle ammaccature la verità del mio stare a guardare.

 

La pazienza è la mia politica. Non provo alcun dispiacere quando penso che sei la mia stanza preferita anche se mi fai odiare due o tre città. Come la prenderesti se ti dicessi che tutto quello che hai imparato ti sta mettendo al posto ma che se lo togli di mezzo rimane un errore bellissimo. Non rileggo mai quello che scrivo perché così le parole se ne vanno e hai come l’idea di non tornare mai indietro. Mi piacerebbe indossare qualcosa di tuo per sbaglio, trovarlo tra le mie cose, non farci caso. Ci faccio caso ai tentativi che fai di sorprendermi.

 

“Quando la terra sarà scossa dallo scuotimento” è una delle cose più belle che ho letto oggi dentro un libro che stava per cadere. L’ho salvato dall’ammaccatura e lui m’ha regalato queste parole. Quando. Ho sistemato tutti i cassetti, messo tra la spazzatura altri ricordi, messo, non buttato, l’ho solo portati via, in un altro posto che non sia questa casa. Così che quando la terra sarà scossa non mi ritrovi sotto centimetri di cose andate. Ieri a te ti ho messo dentro un desiderio. È come tirare una linea dritta, lanciarla. È solo un gesto aerobico, un movimento immaginifico che si muove nel vuoto senza nessuna immagine sullo sfondo, senza orizzonte. È una linea verticale. Ti sto chiedendo se vuoi farci parte, se vuoi credere che ci portiamo fortuna. L’hai detto tu. Non voglio che l’appendicite mi buchi la pancia. E se la tengo a digiuno è per sentire prima, per non avere niente che occupi lo spazio tra me e il mio difetto.

 

Il moto sotto i miei piedi s’è fatto languido e le punte degli aghi ormai non fanno più male. Mi alleno ogni mattina a starci sopra a occhi chiusi. La pelle è sempre la stessa, non si è mai opposta, ha imparato ad accogliere. Ti accorgi di quanto le cose stanno cambiando mentre succede e succede che ti dimentichi come era prima, come se non ci fosse mai stato niente che questo giorno, che stamattina. Non so come andrà ma questo è un bene.

 

Ti sto dicendo che è molto meglio se cambi qualche abitudine. Riponi male le tue energie. Qualcuno qualche volta voleva insegnarmi come si fa, che basta mangiare e dormire bene. Ma quanto tempo rimane. Quanto tempo ci rimane per quel bene. Quante volte t’ho detto andiamo via andiamocene. Invece adesso ti sto chiedendo di rimanere perché qui c’è tutto quello di cui ho bisogno e non ho bisogno di niente che non sia quello che ho. Se lo trovi complicato è solo perché non lo sai, non hai mai perso nessuna abitudine da quando hai deciso che quelle ti facevano sentire che era tutto ok. Non rimarrà niente di tutto questo parlare, lo sai meglio di me.

 

Ho visto la pianta muoversi ieri, uno stelo si è spostato e ne ha mosso un altro. È un fatto che non mi era mai successo e ci ho fatto caso. È la pianta più bella quella che quando entri a casa dici “come è cresciuta”. Sta crescendo bene, le do da mangiare una volta ogni tre o quattro giorni. Non chiede altro. Mentre mi guardo cinque o sei foglie nuove stanno nascendo, è un fatto insolito che si potrebbe chiamare in qualunque modo. Non ci faccio più caso alle parole degli altri delle altre, alle parole che non sono importanti perché non sono poche. È una questione di allenamento alla solitudine. Quando il reale diventa concreto e non esistono abbellimenti di alcun tipo. Questo carnevale ha un vestito di ossa rotte e disgiunzioni.

 

Ho scritto qualcosa il 17 gennaio. Era una lista di cose che ieri ho messo dentro un vaso. Qualcosa l’avevo aggiunta il 22 febbraio, qualcosa come, adesso non ricordo bene, ma riguardava un’idea che non era un atto rivoluzionario ma più una promessa. Ho preparato un tè e ho messo la mia disposizione nella condizione di accettare anche ciò che non mi aspetto di trovare. Dimmi se anche tu ti lasci sorprendere, se anche per te è arrivato il momento di lasciare il posto e di non chiamare soccorso. Il tempo passa per chiunque, ci dimenticheremo di come eravamo cinque anni fa, di come quello che pensavi fosse così importante, dicevi è così importante. Ti senti mai di aver malriposto? Non pensiamoci più, ti sto dicendo questo.

 

Penso di avere trovato il modo di farmi crescere le unghie e il tuo nome non mi fa più paura. Lo so dire anche a voce alta, dovresti vedere. Stanotte c’erano una cinquantina di gabbiani, erano le quattro ed erano già lì mentre camminavo verso casa. Erano lì per me, ce li avevo portati io, mi ha fatto sentire che era tutto come doveva essere. Li ho ringraziati e se ne sono andati. Non puoi farci niente quando qualcosa smette di funzionare, ma puoi assistere alla fine delle cose. Non possiamo essere altro che noi.

 

Questa città è piena di sirene, ma ormai non ci faccio più caso. Una volta tanto mi sento come se dentro di me ci fosse la città. La sto guardando con altri occhi, la tocco spesso. Se ti dicessi che mi piace come mi fa sentire come mi fai sentire ti sorprenderesti. Mandami una cartolina da dove sei e dimmi la verità se ci tieni a tutta questa incredibile rivoluzione che possiamo fare. Ti vorrei dire che non sto rinunciando a niente per tutto questo. Se solo volessi leggere quello che dico te lo direi.

 

Stanotte non c’è neanche un filo di vento e se squilla il telefono non sei tu. La linea dritta partirà dal momento in cui leggerai queste parole e mentre lo dico non capisco più se è lecito lasciare o chiamare qualcuno che mi dica cosa sto facendo.

BUIO II

Ti ho detto che il mio nome era un altro

e mi sono soffermata su un tipo di pianto che avevo visto una volta in un vecchio film giapponese.

Cielo grigio cuore amaranto.

Spezzare l’intesa.

L’intimità ha il fiato più corto del maratoneta improvvisato.

L’intimità più sincera non è quella di cui sapresti vergognarti.

In mezzo alle gambe, ferite aperte, il taglio, lo strappo.

Sciogliere la melodia nell’impedimento dell’abbraccio.

E lo spavento dei paesaggi che non vuoi più incontrare.

L’incognito fa parte della superficie, non arrivi se non pensi:

“Il fuori fa parte del dentro”

Una volta ho capito di somigliarti così tanto che avevo la sensazione

di muovere la bocca tutta a destra come fai tu mentre parli

E stringere la mascella del disaccordo quando non lo fai.

È nello spazio dei molari che mi sono ancorata,

nel bel mezzo di un dispiacere.

E lì ho messo la lingua fuori per assomigliarti sul serio.

È incandescente il pensiero quando non ci sarai.

Scotta sciolto il ferro con il fuoco.