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Puntata 11

– E va bene, – disse Fabrizio (ma chi era, poi, costui?) – se la cosa ti procura così tanta agitazione, facciamo un passo indietro. Il cane non è morto. Non ancora, almeno.

Nora sembrò acquietarsi. – E il poeta? – chiese incerta.

– Lascia perdere il poeta! – la interruppe bruscamente Alice. Sembrava davvero infastidita. – Davvero pensi questo di me? Che arriverei ad avvelenare un cane? Che il mio odio verso il mondo sia tale da superare i miei sensi di colpa?

– Non ho mai detto questo.

– Ma l’hai scritto! – gridò mentre brandiva tra le mani un malloppo di stampe stropicciate, – perché se tu sei Z., anzi N., A. non posso essere che io. E dunque sarei io l’Antagonista? – chiese con tono melodrammatico. 

– Forse è meglio che vi lasci sole. – intervenne il Poeta, un poco imbarazzato.

– Tu non vai proprio da nessuna parte! – lo minacciò Alice. – Ci serve un testimone.

– Alice, mi pare che adesso tu stia proprio… – iniziò Nora.

– Basta! Ora mi spieghi: voglio sapere cos’è la porcheria che vai scrivendo, e soprattutto perché mi ci hai tirato dentro! Nora, cosa pensi davvero di me? – continuò Alice.

– Siediti, – disse Nora – dobbiamo parlare e ci vorrà un po’ di tempo.

Alice adesso tremava. – Mi fai paura, Nora. E poi… io non ti capisco più. – Poi si sedette, sconsolata.
– Proprio questo, Alice. – rispose Nora a voce bassa, – tu non mi capisci. E io non ho mai capito te… prima di stasera. No, non interrompermi. Dovrai solo stare a sentirmi… è venuta l’ora della verità.

Alice impallidì, si appoggiò languidamente alla spalliera del divano: sembrava aver perso ogni forza residua. Dopo un breve silenzio Nora proseguì, rivolta agli altri due: – non vi sorprende vederci seduti qui, tutti e tre, uno di fronte all’altro?

– Come sarebbe a dire tutti e tre? – chiese il Poeta.

– Non vi viene in mente che questa è la prima volta che parliamo seriamente, tutti insieme?

– Tutti insieme? Che vuoi dire? – chiese Alice.

– Lasciami fuori, per favore. – Sibilò l’uomo, che adesso iniziava a innervosirsi.

– Smettila tu. La nostra recita si conclude qua. – ribatté Nora. –  Poco fa stavamo addirittura per baciarci, anche se ora fai finta di nulla. Ti ho addirittura chiesto di raccontarmi la nostra storia, per capire fino a  che punto saresti arrivato, e tu l’hai fatto (a modo tuo ovviamente), come se nulla fosse. Il solito bastardo. Ma tu, – disse poi ad Alice, che stranamente non manifestò alcuna reazione a questa serie di sconcertanti  novità, – me l’avevi perfino detto che in quella foto, nel suo appartamento, avevi visto una donna identica a me. Per un attimo ho pensato che tu avessi capito tutto. Dimmi, non hai mai pensato che potevo davvero essere io? La donna che da poco l’ha lasciato, quella che ha procurato la sua disperazione, la stessa, in fondo, per cui oggi tu l’hai invitato qui. Per distrarlo. Consolarlo. Non eri mai riuscita a vederla in passato, l’hai detto, no? E io ti ho assecondata. Quella donna, però, non era affatto identica a me; quella donna ero io, sono io, mia cara, buona, ottusa Alice. Mi dispiace molto dirtelo così: non ce l’ho con te. E non vorrei nemmeno che tu ti colpevolizzassi. In fondo stiamo assieme da così poco tempo, appena una settimana di convivenza! Cosa si può capire di qualcuno in un tempo così limitato?

Alice era davvero incredula. Balbettò, in un moto residuo di vitalità: – ma allora lui…

– Lui sapeva tutto, ovviamente. Mi seguiva da giorni, ha provato in tutti i modi ad attirarmi nella sua trappola. Poi ha pensato di usare te: ti ha raggirata coi suoi singhiozzi, ti ha impietosita ben bene, ed eccolo qui a elemosinare la tua compassione e il mio amore. Ma perché avrà fatto tutto ciò? Questo ti starai chiedendo, vero Alice?  Per poter continuare a fingere che la mia storia fosse la sua, come ha sempre fatto, e perfino che fossi uscita dalla sua penna, invece che dalla sua vita. Questo signore, che oggi si presenta a noi come il Poeta, non ha nulla a che fare con la poesia, è soltanto un mitomane, mia cara. La colpa, però, non è solo sua, ma è soprattutto mia: non sono riuscita ad allontanarmi abbastanza. Mi è mancato il coraggio. Quando le storie sono così ingarbugliate, ellittiche e incongrue è molto difficile raccogliere i fili sospesi e portarli fino in fondo o anche solo da qualche parte sensata, ma non potevo nemmeno prendere del tutto le distanze da tutto ciò. E così, per quanto ogni cosa fosse in un assurdo disordine – la mia vita, e la trama di questo romanzo – dopo averti conosciuta, Alice cara, ho deciso che eri tu la persona che faceva per me: buona, dolce, gentile… Ma soprattutto avevi questa bella casa gotica, con giardino e piscina, proprio di fronte all’appartamento del mio ex. C’era perfino un buco nella siepe, da cui riuscivo a spiare tutte le sue mosse.

– Dunque ti sei messa con me solo per questo? – chiese la donna. Aveva un’aria davvero distrutta.

– Ma ti ho voluto anche bene, sai. Al principio, però, dopo avere abbandonato lui, volevo solo restare a guardare come finiva la sua storia da qui, dal nostro giardino, sul bordo della piscina. Perché? Perché quella era la sua storia, ma era proprio come se fosse mia. E del resto, di chi è mai, alla fine, una storia che passa da uno all’ altro? Ognuno la tradisce, la turba, la eccita e la rende irriconoscibile.  E alla fine questa storia è la sua? La mia? La nostra? In seguito ho trascritto tutto quello che mi ricordavo e anche quello che vedevo succedere giorno dopo giorno, da che me ne ero andata, e sta tutto là, chiuso in quel file che tu, Alice, hai trovato e stampato, quello nel computer, il faldone che ora mi agiti contro come se fosse un’arma. Questa sera trascriverò anche l’ultima scena. Tocca a me, infatti, scrivere il capitolo finale. Per cinque lunghi mesi, forse anche di più, io e lui non abbiamo mai scambiato una parola seria sul racconto. Del resto era impossibile: ognuno era perso a inseguire i suoi fantasmi. Ed eccoci arrivati al punto. Di cos’è che parlavamo, in realtà? Della vecchia del palazzo di fronte? Del buio oltre la siepe? Del vicino? O magari del cane?  – proseguì Nora, e poi, rivolta al giovane, aggiunse quasi sottovoce: – passavi le giornate chiuso a scrivere, all’ombra di quella tua lampada novecentesca, a scrivere le mie storie, le storie che io ti raccontavo. Con quel tuo arrovellarti sulla legge del possesso. Che palle infinite! Nulla ci appartiene, dicevi. Mi hai fatto perfino firmare un contratto. E io l’ho perfino firmato! Che senso ha adoperare i possessivi, chiedevi. Io non ho, io non ti ho. Io non ti ho perché io non ho. E bla bla bla. Mi hai messo in bocca queste tue cazzate fin dal principio del tuo romanzo, che poi era in fondo solo un plagio, la riscrittura fedele del mio: proprio tu, che vietavi i possessivi, non ti facevi scrupoli a saccheggiare i miei appunti, a trascrivere ciò che ti raccontavo, la sera, prima di dormire. Eri a caccia di cose fresche e luminose, dicevi, le stesse che sfilacciavi poi nella poltiglia di un racconto schizofrenico e spezzato in cui tutto mi pareva alla fine pieno di cose morte tra le cose vive, cose morte che simulavano la vita, tinte e ritinte. Nulla era più mio, ormai, e tutto era pieno di me. Non ne faccio una questione di morale, credimi, a irritarmi sono solo le cose di second’ordine, e i tuoi racconti, lo sappiamo entrambi, sono di second’ordine.

Nora si prese la testa tra le mani, con un sospiro strozzato. Restarono immobili, tutti e tre, in silenzio, per un lungo momento. Quindi la ragazza riprese: – molto presto, però, anche i miei capitoli si sono guastati. Sbiadivano, si irrigidivano nella mia mente ancora prima che riuscissi a scriverli. Si sa, è un processo irreversibile: da allora tutto si è incastrato male. Siete stati entrambi molto ingiusti nei miei riguardi, prima tu, e poi anche Alice.

– Ingiusti? – balbettò il giovane, che ora aveva assunto un’espressione afflitta, quasi disarmata.

– Anch’io? Io che ti ho amato più di qualsiasi altro! – disse in un soffio Alice.

Nora scosse il capo: – non mi hai mai amato. Ti è sembrato piacevole volermi bene. E anche tu, – disse al Poeta, – prima di lei. Quando ero a casa tua, mi confessavi le tue opinioni sulle mie storie, chiedevi sempre che te le leggessi e io lo facevo, non ti nascondevo mai nulla, perché altrimenti ti sarebbe dispiaciuto, e io… io credevo di amarti. Poi sistemavi tutto a tuo gusto e così, alla fine, avevo anch’io i tuoi stessi gusti, oppure facevo finta di averli, non so più bene… Credo tutte e due le cose insieme, ora l’una e ora l’altra. Ad esempio la storia della vecchia, delle sue diciassette case: ero io che l’avevo abbozzata in principio, ma poi si è guastata, sformata, smarginata, è uscita dai gangheri, finché non hai inventato quell’orrendo omicidio con quella donna senza mano, la morta, che alla fine, pensai, non poteva che essere… quella morta alla fine ero io! Era questo che volevi, tutto sarebbe finito in questo modo disgustoso, sono stata costretta ad appuntare anche l’orrenda, estrema possibilità nel file che tengo di sopra, nel computer, l’ho fatto solo dopo avere letto l’articolo naturalmente, forse anche quel giornale me l’hai fatto trovare tu, nella cassetta delle lettere, chissà.

E poi la cagna… Sapevo bene che non c’era nessuna cagna, la cagna era un cane, ovviamente, e non era affatto incinta, era il mio cane, guarda, è qui… Atreju?

Nora si girò in cerca di Atreju, ma il cane non c’era più, doveva essere andato a dormire a quest’ora, nella sua cuccia.

– Non importa. Allora ho deciso di fuggire e sono venuta qui, a casa tua, la casa gotica dall’altra parte della strada, una casa fatta apposta per suggerire incubi e fantasmi, questo poteva essere un bel diversivo nel racconto, ma spesso, anche qui, mi mancava l’aria.

– Ora parli così della nostra storia? – disse Alice con tono glaciale.

– Intendo solo dire che dalle sue mani passai nelle tue: se ora ci penso, però, mi sembra di avere vissuto qui solo come una poveretta… alla giornata. Scopo della mia vita era quello di comporre. Tu rientravi la sera e nemmeno mi chiedevi cosa avevo fatto. Ti bastava che fossi qui, nella tua bella casa, sul bordo della piscina. Le cose stanno così. È colpa vostra se la mia storia è inconcludente, sciapa, e ancora non torna, non regge.

– Nora, sei ingiusta e ingrata! Non sei stata dunque per nulla felice?

– No, non lo sono stata. Lo credevo, ma non lo sono stata. La nostra casa, la tua casa, non era altro che la cornice di un romanzo. Ma che romanzo poi? Non c’è più nessun romanzo! – disse angosciata.

– C’è qualcosa di vero in quel che dici… per esagerato ed esasperato che sia, – le rispose il giovane Poeta. – ma d’ora in poi… 

– Non ci sarà più nessun “d’ora in poi” tra di noi. Adesso è necessario che io rimanga sola, se voglio rendermi conto di me stessa e di tutte le cose fuori di me. Non posso rimanere più qui. Né tantomeno ritornare da te.

– Ma Nora, Nora! – dissero entrambi.

– Me ne andrò subito. – disse con tono definitivo. E si alzò subito e stava per aggiungere qualche altra logora frase d’addio quando successe qualcosa di strano. Al principio pensò di sentirsi male. La vista le si era appannata. Si stropicciò gli occhi per tentare di ricacciare quell’assurda sensazione, ma niente, era proprio così: le due figure agitate e gesticolanti sedute sul divano, di fronte a lei, parevano impallidite, come se il loro stesso colore stesse perdendo di forza e temperatura: i loro volti, i loro abiti, ogni cosa. Non era un’impressione, i loro corpi erano come scollati, disancorati da sé, e perfino le voci si facevano sottili, sempre più lontane, come un’eco remota, quasi impercettibile. Adesso erano solo due ombre incolori, e prima che Nora potesse aggiungere una sola sillaba ecco che di loro non restò alcuna traccia, nemmeno una piccola piega sul divano a testimoniare la loro recente presenza.

Nora dapprima si spaventò, poi a poco a poco si sentì… sollevata. Tutto ora sarebbe stato più semplice. Salì lentamente le scale, tornò nella stanza del computer, cercò l’Antagonista, quel file tempestoso e così problematico. Lo aprì. Lo scorse frettolosamente, come se avesse i minuti contati e ci fosse qualcuno di sotto ad aspettarla:

 

«La signora camminava davanti a me, testa grigia e passi tra altre teste e altri passi. (…) Signora, senta, il cane è suo? (…) E, anche questo te lo ricordi, lì ho sbranato per gioco diciotto galline. (…) – È che è incinta. – È incinta? – Sì. So che non si vede, ma è così. – È femmina? – È femmina. – (…) Tutto trema e lei cade a terra come morta, sbatte la testa. (…) La signora raccoglie il pacco, la bolla di accompagnamento lo conferma: è per lei.  A A da A. Lo manda la sua fazione. Lo aprirà più tardi. (…) Da dove era uscito l’Antagonista cui la vecchia obbediva? (…) Una lingua scivolò sul suo viso, bagnandolo. (…) Era tornata qualche ora dopo, e naturalmente non ce l’avevano fatta, la cagna era morta (…) Il cane non doveva morire, questo lo so, lo sento per certo».

 

Nora chiuse gli occhi, poi li riaprì: la testa le pulsava. Per farla finita bastava un piccolo, semplice gesto. Ecco. Tra un istante tutto questo non ci sarà più. Sentì il suono tronco dell’eliminazione. Fine. Finito.

Nora respirò. Per la prima volta, da tanto tempo, si sentiva libera.

Aprì un nuovo file.

Scrisse al centro, in carattere stampatello:

 

ANTAGONISTA

 

Questa storia inizia da qui…

In quel momento suonò il campanello.

 

Driiiiin.

Nessuna reazione.

Driiiiin, driiiiin.

Ancora niente.

 

– No, basta, questo c’è già stato, non posso ricaderci ancora, – si disse Nora.

Ma il campanello suonò di nuovo.

– Nessuno può sapere che sono qui. Di sicuro cercano Alice. Ma Alice… Dov’è Alice? C’è mai davvero stata un’Alice qui? Calma. Adesso scendo, vado ad aprire, dirò che lei non c’è. Dirò che sono solo di passaggio, che sto per partire. Sarà certo il postino. Il corriere. Sì. Adesso scendo, apro e mi libero di questo seccatore.

Nora scese piano le scale, come se avesse paura di trovare di sotto qualcuno, acquattato in qualche angolo, poi lanciò un’occhiata al divano. Nessuno. Per fortuna non c’era nessuno.

Aprì la porta.

Di fronte a lei apparve una vecchia, dai capelli grigi.

Aveva un impermeabile chiaro e lo sguardo amichevole.

Il suo viso… No, impossibile. Nora si avvicinò per guardarla meglio. Lo sguardo della vecchia era vispo e curioso.

– Mi scusi se la disturbo, ho visto la luce di sopra. – La vecchia indicò la finestra dello studio. – Ho pensato che si sarebbe preoccupata e così, alla fine, mi sono decisa a suonare, anche se l’ora non è…. diciamo… adatta a una visita… – ridacchiò.

Nora era così stupita da non accorgersi della bestia che si premeva intanto sulle gambe della donna e la guardava dal basso in su, con gli occhi umidi e la lingua a penzoloni.

 – Ho pensato che sarebbe stata molto contenta se le riportavo la sua cagna. Perché è la sua questa cagna, vero?

E allora Nora la vide: grossa, ansimante, col ventre che toccava quasi terra. Fece un passo indietro, atterrita.

– No, io non ho nessuna cagna. – s’affrettò a dire. – Ho solo un cane, io, ed è di là. Mi scusi ma devo proprio… – e fece per chiudere la porta ma la vecchia lo impedì allungando il braccio nella fessura. Era forte, nonostante l’età e Nora perse l’equilibrio e arretrò ancora di un passo.

– Ma certo che è la sua, l’ho vista molte volte passeggiare con lei. – disse la vecchia. – È una vergogna abbandonare una bestia in questo stato! – Adesso aveva un tono duro e gli occhi appuntiti e severi.

– Se ne vada, lei non può presentarsi qui da me come se fosse… lei non esiste più, proprio come loro! – e Nora indicò il divano.

La vecchia la guardò come si guarda un pazzo. Poi disse, con un tono più dolce e gentile, mentre al contempo passava al tu: – mia cara, scusa, credo di averti spaventata… C’è qualcosa che non va? Posso aiutarti in qualche modo? Non mi hai mai vista prima? Sono la tua vicina. Abito qua di fronte, in quel palazzo laggiù.

Nora iniziò a tremare, la sua voce si fece lamentosa, piagnucolosa: – certo che l’ho vista, molte volte, ma lei non dovrebbe stare qui… – all’improvviso tacque e la fissò. Poi disse: – Il suo volto è così simile…

La vecchia si spostò al suo fianco e le cinse il fianco con un braccio, come per sorreggerla: – vieni, ti aiuto io. Cosa dicevi del mio volto? Ci vedi un cambiamento? È il tempo. Lavora.

– Ma che significa? – chiese la ragazza.

– Da quando avevo la tua età sono passati sessant’anni.

Poi indicò i capelli grigi e le tempie corrugate. «Cosa credi che ti mantenga così giovane e bella? L’incompiutezza. Anche io scrivevo un tempo, sai? E tutte le trame irrisolte, la pagina sempre più bianca… è quella la felicità! Ma adesso, adesso io non posso, non ci riesco più. – Alzò lo sguardo a lei con infinita tenerezza. – E in fondo mi piace di più a questo modo – disse. – Non è quello che anche tu desideri?

– Desidero?

– Che lei partorisca, – e indicò la cagna, – e che voi, poi… invecchiate insieme.

Nora era ormai senza parole, lo sguardo viaggiava dal volto raggrinzito della donna al cane. Poi si toccò le guance, il naso, la bocca. Il volto della vecchia era quasi come il suo, pensò, ma il velo degli anni lo aveva ammorbidito e al contempo raggrinzito. I capelli lucenti dovevano aver perso la loro elasticità, la guancia la sua limpidezza, la fronte la sua luminosità: tutta la donna era ormai declinata.

La vecchia le posò una mano sul braccio. – Ti piace la tua storia? – disse con tristezza.

– Mi piace? No, non mi piace… cioè io l’avevo… l’ho perduta! – esclamò la ragazza.

– E io l’ho ritrovata -, rispose lei, indicando la cagna che entrò in casa e si accoccolò docile ai piedi di Nora. – Tra poco partorisce. Deve stare al caldo.  Adesso io devo andare, ma sono più tranquilla, ora che ci sei tu.

– Aspetti! Posso chiederle… mi perdoni una sola, ultima cosa… la sua borsa… io, vorrei chiederle… posso chiederle di aprirla?

– La mia borsa? – chiese la vecchia. E scoppiò in una risata franca, di autoderisione. Poi sfilò la tracolla dalla spalla, senza fare altre domande: – E cosa pensi di trovare nella borsa di una vecchia? – ridacchiò ancora. Fece alcuni passi, fino al tavolino basso vicino alla porta d’ingresso e svuotò il contenuto della borsa. Nora vide cadere sul tavolo, in ordine: un mazzo di chiavi, alcune monete, una penna, le pillole per la pressione e, solo alla fine, un foglietto, ripiegato con cura. Quella carta… Nora la conosceva bene, perciò disse subito indicandola: – eccola, è la lettera!

La vecchia sorrise: – la lettera? Ah, sì. Queste qui me le scrivo da sola. È una brutta bestia la solitudine. Vedi? – e girò il foglio, che era poi una busta. – Ad A. da… Z. Io mi chiamo Anna, infatti. E Z è stato… lasciamo stare, questa è tutta un’altra storia. Adesso però devo proprio andare. Ma tu occupati di lei e abbi cura di te stessa. Tieni quel che serve e il resto… cancellalo, ma forse non ti basterà.

Poi raccolse tutti i suoi possessi, li sistemò nella borsa e si avviò verso la porta.

 

Nora non si stupì delle ultime parole della vecchia, e nemmeno si chiese come faceva a sapere del romanzo. Forse, pensò, era lei stessa ad averglielo detto. Sì, doveva essere andata così, non si ricordava più bene, era talmente stanca! Pensò che, in fondo, la vecchia le aveva dato un buon consiglio. Certo, c’erano molte cose che ancora non tornavano nella sua storia. Domani le avrebbe sistemate, con calma.

Camminò lentamente verso il divano. La cagna le ciondolò dietro.

– Atreju! – chiamò. Voleva presentargli questa nuova amica. Ma Atreju non rispose. Di sicuro dormiva.

Anche Nora si rannicchiò sul divano, sbadigliò una, due, tre volte e poi cadde in un sonno profondo.

 

***

Il sole risplendeva e il cielo era così chiaro che la vecchia faticava a tenere gli occhi aperti. Camminava spedita, testa grigia e passi tra altre teste e altri passi. Era allegra. Quando fu accanto alla siepe allungò il braccio per togliere con cura i rami secchi. Era la siepe del suo palazzo. Ogni mattina ripeteva quel gesto: le dava contentezza ripulire dal secco quella striscia di verde che orlava la cancellata esterna.

Proprio in quel punto, dietro la siepe, c’era la buchetta delle lettere. La donna scostò le foglie e si sollevò sulle punte per raggiungere la cassetta. Numero 22. Eccola. C’era una nuova lettera. Sul retro della busta c’era scritto: «A.»

La donna la aprì:

 

Ben fatto. Continua a tenerla d’occhio.

La cagna partorirà questa sera.

Domani tornerai da lei, per sapere come procedono le cose.

Seguiranno istruzioni dettagliate.

Z.

 

La vecchia sorrise. Alzò lo sguardo al suo appartamento. Aveva dimenticato la finestra aperta.
E va bene, si disse, vorrà dire che si è cambiata bene l’aria. Poi tolse un altro ramo secco e rientrò.