Puntata 4
[…]
Cosa?
Mentre cosa? Esiste una curiosa analogia tra l’incompiutezza e lo sproloquio, un’analogia che si verifica tanto riflettendo quanto praticando ciò che va praticato. D’altra parte, incedere verso il vuoto genera quasi sempre una certa sofferenza. Laddove questo non accadesse, di sproloquio si potrebbe parlare senza affaticarsi tanto in chiacchiere. Un discorso inconcludente, senza esito, privo di ogni sorta di orizzonte, sta nella bocca di chi è poco avvezzo al silenzio. E Non c’è dolore senza intervalli, diceva quel tale. Ma se è l’incompiutezza ad essere, essa stessa s’intende, un fine, ecco che il problema si sovverte daccapo. La scrittura dovrebbe sempre andare là, diretta all’ignoto, ma un ignoto amico, fraterno, neanche troppo adagiato, parola per parola, in attesa che il tempo del “dopo” sia in qualche modo, il più possibile, secondo la più umana delle fatiche e la più folle delle ragioni, un tempo coerente, sincero, alleato se non delle cose narrate, almeno dell’autore. Ma questo, ora, non ha da verificarsi! No, affatto, e basti affermarlo a bollare quanto già ridotto come un ulteriore sproloquio, uno ancora, a certificare il sottile confine tra intenti e compiti. Il fatto è che più si avanza verso il nulla più il nulla si fa più in là, salvo quando è proprio il nulla quello che si cerca. Ecco, in tal caso (un’eccezione si direbbe) si tratta di stabilire di quale nulla ci si voglia occupare. Quali siano le faccende date, di che natura, quale sia il corso degli eventi, quali siano, come sempre, le parole. E più si avanza nella riflessione più si alzano le braccia al cielo, perché anche in questo caso, per pura ironia, è la riflessione stessa a ricondurre il tutto al principio. Perché quando ci si pone, diceva quel tale, contemporaneamente ci si oppone.
Ecco tutto chiarito, pensò lui, ecco tutto nella sua forma più stabile: se si scrive per non finire e si parte dal non finito, si è già in quell’intervallo, quello di prima, in cui sì, ci può essere dolore, ma in cui, sopra ogni altra cosa, si è già avversari di tutti e tutto.
E dicendo questo si avvicinò alla sua scrivania. Perché tutta quella lunga riflessione, alla luce premurosa di una piccola lampada dei primi del secolo scorso, un regalo della nonna materna, si era sviluppata nelle profondità di una poltrona diametralmente opposta alla sua scrivania. Quando si viene abbandonati, dopotutto, la prima spontanea reazione è pensare che non vi sia alcuna eredità da imbracciare, pensò. Certo, restano parole, immagini, figure, battute, brevi descrizioni che più che non appartenersi reciprocamente, come viene spesso evidenziato, non potranno mai appartenere a me, perché tra me e tutto questo c’è il vuoto, pensò, accomodandosi sotto la luce più vibrante della stessa lampada di prima. Fuori passava una macchina, si fermava, parcheggiava. Mentre le ultime piccole frazioni di crepuscolo si erano già spente del tutto. Una persona camminava con le chiavi in mano, alla ricerca di quella giusta, tra altre chiavi, portando pesantemente il passo a terra. La vicina, probabilmente. Un cane abbaiava, annunciandone il ritorno. Poteva sentirlo, attraverso le finestre appena aperte, misere feritoie per il fumo di sigaretta; passava la donna e rincasava, lontano, mentre la sua mente ancora si perdeva e, per diletto, implorava se stessa: d’altra parte, la coerenza (che intendiamo oggi) sta nella continuità. E l’incoerenza, se deve essere, che sia, pensò. Perché chi appartenga a chi saranno pure le parole a stabilirlo, ma non certo le mie (posto poi che le parole appartengano e che non sia chi parla o scrive ad appartenere alle parole, ennesima annosa questione). Questo pensò, credendo di dare una risposta non esaustiva ma sufficiente all’immaginazione, nell’approcciarsi al proprio compito e al proprio piacere. E prima di scrivere, prima di terminare uno scritto che gli comparve d’innanzi, un foglio di carta logoro nella sua compostezza, vide una lacrima scendere e sfiorare la scrivania. Di chi era? A chi apparteneva, quella lacrima particolare? Era troppo triste per indagare oltre. Così si fece forza e buttò giù l’ultimo bicchiere, l’ultimo di tanti. Ed in seguito tentò di riprendere il racconto.
Di cosa si trattava? La disperazione l’aveva ormai stravolto. Ma da dove proveniva? Non poteva saperlo. Talvolta l’animo si affatica così, per gioco. E diventa altro da sé, senza bisogno di giustificazioni. Un’altra lacrima rigò il suo volto. Fuori, all’esterno, niente più.
Così afferrò la penna e terminò quel messaggio. Era una lettera, di quello si trattava.
“L’ultima porta, l’ultima casa, l’ultima via.
Non ricordare altro.
Arriverà sempre qualcuno.
E prenderà il tuo posto.”
Poi si firmò;
Z.
Buio.
Luce. Una luce apparentemente continua.
MENTRE, mentre, mentre, mente. Che fatica. Resta in piedi, ansimando, lei, si scrolla le mani sui fianchi grassocci, imbastarditi da una cinta di pelle tirata a due mani fin sopra l’ombelico. Poi si placa, arresta il respiro, tenendoselo dentro come un boccone che si deglutisce a fatica, turandosi il naso senza bisogno di dita a comprimere le narici, ferma, con gli occhi fin troppo aperti, fissi, per poco più di un istante. Si volta di scatto, fa qualche passo verso la tavola della cucina. Una tavola già apparecchiata per due persone, coperta da una tovaglia rosa spento, una tovaglietta con qualche macchia di olio nei pressi del centro, un paio di sbavature di vino, alcune briciole, come a segnare pigrizia diurna e notturna, disattenzione, premure incompiute. Si gira ancora, apre un cassetto, ecco un foglio, lo prende, chiude il cassetto e la tovaglia rosa-spento resta impigliata. Ora ha un foglio in mano ma il suo aspetto non è affatto cambiato. Se non altro per il respiro, sempre incastrato a mezzo fiato ed ancora mezzo soffocato.
Gli occhi sì, quelli sono più quieti, quasi la scoperta di quel foglio (una busta ad essere precisi) l’avesse in qualche modo rassicurata. Poi si riflette, di fronte all’altra donna, immobile. Che cosa vorrà da me, si dice quell’altra, celando improvvise riflessioni tra pensieri informi. Ma soprattutto, dove sarà finita la cagna? Magari nell’altra stanza. Dev’essersi alzata da poco, perché io non la vedo più.
In effetti la sala pare più spoglia di prima, e non solo per la scomparsa della bestia. Sembra praticamente vuota. Senza arredamento alcuno. Abbandonata a se stessa, così come l’aspetto di chi l’aveva presumibilmente abitata. La signora con i capelli grigi è d’un tratto paonazza, le guance portano tracce di capillari esplosi, quasi una forma di alcolismo istantaneo, una geografia disarticolata di puntini rossi poco accoglienti che paiono quasi delle piccole ustioni, man mano sempre più gravi. Fa qualche passo, si avvicina. Allunga il braccio e, con esso, porge la busta a mezz’altezza, tenendola poco salda tra le dita grassocce e superficialmente sudate. E poi dice:
Ecco. Ti stavo aspettando. Tieni, è per te.
Per me? Cosa? — risponde l’altra, in un solo sospiro, un alito sofferto, carico di vuoto. Non se l’aspettava affatto. Così, tutta tremante, afferra la busta e la trae a sé. La porta prima sotto il mento, afferrandola poi come fosse uno specchio.
Lettera per A. Firmato Z.
Questa è per me? — pare sussurrare la stessa, indietreggiando così impercettibilmente da sembrare più salda nel corpo che nelle intenzioni. Ma la donna con i capelli grigi che le sta d’innanzi, ormai ravveduta e quasi pienamente calma, sorridendo le porge il braccio, indicando con le dita sfregiate la stessa figura che dubbiosa la implorava.
Che bella donna — pensa. È venuta qui per un cane e ora si ritrova per le mani un osso, perché prima di essere tutti quello che siamo, tutti abbiamo il compito d’essere ciò che non siamo — FORSE pensa ancora, con un poco di sdegno. E poi, in un attimo, animata da questa stessa consapevolezza, scoppia a ridere fragorosamente, con un conato diabolico che intimorisce ancor di più la sventurata. Quella tiene la lettera, ancora, e rilegge sempre più timorosa:
Lettera per A. Firmato Z.
Devo aprirla? Ma dove è andato il cane? Perché sono qui? Ho un cane io? Dove ero prima? Cosa c’è fuori da questa porta?
No, no, che perdita di tempo. In breve si ravvede. Il tempo di prima, quello dell’arrivo, e il tempo di dopo (o della presunzione) si affaticano a tal punto da farsi spettri ossuti ed impresentabili, squallidi figuranti al cospetto di una minacciosa sconosciuta. La sala è più vuota di prima, vede solo le pareti bianche. E la luce si fa forte, sempre più forte dalle finestre. Ma che ore sono? — si chiede. E nessuno risponde, perché nessuno ha parlato.
L’oceano è molto grande. Può essere spaventoso.
Ma non c’è niente di più tremendo di quello che l’oceano nasconde, là sotto.
Là sotto arriva un punto in cui la luce non passa più. Nessuno l’ha mai vista.
Come qui. Tu non ci vivi, ancora. E forse non ci vivrai mai.
Ma so già, questo lo so…
Che tu non hai mai visto dei vicini così.
Disse. E fece un risolino, la signora.
Ma di cosa sta parlando? Chi è questa?
Questo pensa. E sudando freddo, come se l’inverno si fosse abbattuto su di lei all’improvviso, apre la busta. Una lettera le si presenta tra le dita. È scritta a penna, in corsivo, senza sbavature, con una calligrafia ben leggibile, accurata, precisa, diagonale per lo più.
Comincia a leggere. Fuori la pioggia improvvisamente scende, copiosa. Si scaglia a terra sempre più forte. Un rumore straziante, come un terremoto, si fa largo dalle fondamenta del palazzo. Tutto è fermo, cristallizzato. Gli occhi si fermano, sbiancano, si gonfiano di lacrime, le pupille girano all’indietro. Tutto trema e lei cade a terra come morta, sbatte la testa. La lettera copre tutto.
Buio.
Luce.
Passato? Sì, come rinunciarvi. — dice…
BAU BAU BAU! Un Golden Retriever innocente, più delle tinte del proprio manto, scodinzolava in giardino, giocando tra i fili d’erba con la banalità del prato. Era un giardino grande, quello. Ogni angolo stava negli angoli, ogni fiore cresceva, ogni ramo era un ramo. Il giardiniere veniva a mettere ordine due volte a settimana, occupandosi di rastrellare i fondi delle siepi, di coprire le buche che talvolta il cane scavava (innocentemente, sia chiaro, sempre innocentemente) e di annaffiare senza sosta tutto il quadro d’insieme. Così che quel grazioso praticello, rotto al centro da una piscina insignificante e perennemente tersa, costituisse la migliore delle vedute possibili per accedere alla casa, tanto come ospiti quanto come abitanti.
Stesa al sole, incurante di quanto si materializzava attorno (per la verità poco più di niente) stava la padrona di casa, una giovane poco più che maggiorenne, la legittima proprietaria del cane. Si era abbandonata ai raggi coprendo il proprio corpo con un timido strato di crema, ascoltando della musica ad un volume così basso da apparire quasi impercettibile. Occhiali scuri addosso, smalto rosso alle unghie, un anello sul dito anulare ed uno, più appariscente, all’indice della mano destra. Sulla sinistra nulla, se non una lunga cicatrice che le occupava tutto il polso. Un taglio rossiccio, deforme, al più una falce, una ferita rimarginata e sepolta presumibilmente negli anni. Un cappello largo e bianco le calava sul volto. Il cane le si avvicinò e tentò di portarle una pallina da tennis mordicchiata ed intrisa di bava, tappezzata da fili d’erba e peli, gocciolante, rovinata. La posò all’altezza della coscia solleticando con il naso bagnato la pelle della ragazza che, con delicatezza, scostò il viso della bestiola. No, no, basta! — con un tono rigonfio di affetto ed insofferenza, una lagna quasi fanciullesca. Lontano compariva il rombo di una macchina che si dirigeva altrove, leggiadra. Un rumore disteso, indolore, tanto quanto la musica che accompagnava la lettura della ragazza.
Una donna questa mattina è stata trovata morta in un appartamento di Via B., riversa a terra, in un lago di sangue. Gli agenti di polizia hanno collocato il decesso nelle 48 ore precedenti. Le cause sono ancora da accertare ma paiono riconducibili ad un trauma cranico. A destare particolari sospetti, però, la presenza di ripetuti morsi all’altezza dell’addome, sulle braccia e sul piede sinistro. Ferite pesanti ma non fatali. Gli inquirenti hanno disposto il sequestro dell’abitazione che, secondo i primi accertamenti, risultava disabitata da alcuni anni. Ad allarmare i vicini l’odore del corpo incancrenito. Mancava infatti, alla vittima, una mano. A terra, sul pavimento, sono state ritrovate tracce di terriccio e dei rami secchi, disposti in ordine. Forse segni di qualche rituale. Le indagini sono ancora in corso.
In quel momento, non appena ebbe terminato la lettura dell’articolo, comparve alle sue spalle una donna. Era una tale di mezza età, un poco corpulenta, agghindata con un paio di brachette tirate su, tenendo a forza il grasso delle anche. I capelli raccolti dietro, un paio di ciabatte, una gomma da masticare in bocca e lo sguardo all’orizzonte, diretto alla fine della siepe (verso ovest) oltre la quale la macchina di prima si era già allontanata, lasciando spazio ad un altro veicolo, altrettanto lento, diretto in senso opposto, proprio verso la casa.
Devo parlare con te. — le disse, avvicinandosi. La ragazza abbassò il giornale e lo ripose, dopo qualche occhiata — Leggi il giornale al tramonto, come sempre. Non voglio disturbarti ma… Devo davvero raccontarti una cosa.
Che cosa? — disse l’altra, ravvivata dallo sforzo.
L’altra sera ero in sala, stesa a riposare, mentre tu non eri ancora rientrata. Era la notte in cui c’è stata quella grande festa, quel ricevimento cui non potevo partecipare, sai bene perché. Due giorni fa, sì. Sono passati soltanto due giorni, ora che ci penso. Ecco, ero sola, nella sala… Avevo deciso di mangiare solo qualche fetta di pane bianco, infilare la vestaglia e chiudermi in camera, aspettando che tornassi. Ma sai bene l’effetto che mi fa, anche solo pensare di stendermi a letto da sola, senza nessuno in casa. Prendere sonno, abbandonarmi con tutta probabilità a pensieri inaspettati, fino a disperdere ogni forza, inerme, sotto le coperte… Così sola da poter essere vittima di chiunque, finanche di me stessa. Non c’è bisogno che mi dilunghi oltre, mi conosci ormai. Se imbocco certe fantasie non so più frenarmi!
Così ho pensato di chiamare il cane, perché rientrasse a farmi compagnia. Mi sono alzata e ho preso a chiamarlo, dapprima sottovoce, poi sempre con maggiore convinzione, fino a strillare. Ho urlato tanto, fino a quando ho realizzato che non poteva essere chiuso dentro, insieme a me. Allora, presa da un fremito, non ho più avuto il tempo di riflettere. Ho fatto una corsa verso la porta d’ingresso, la chiave era ancora inserita nella serratura, l’ho girata tre volte, l’ho aperta e sono uscita qui, qui fuori.
I grilli canticchiavano e lontano, molto lontano, sentivo qualche macchina passare. La piscina splendeva al centro del prato e l’acqua era ferma, paralizzata. Ho chiamato ancora il cane, sempre più forte, ma niente. Nessuno si muoveva. Così a piedi nudi mi sono messa a camminare sull’erba fresca, proprio là… E là… E là ancora, vedi?
Questo giardino è così grande, così esteso… Non si direbbe, osservandolo da dove stiamo noi, ora. Sono andata a controllare vicino al cancello, ho dato uno sguardo oltre, oltre le siepi… Ma niente. Ho pensato fosse fuggito. Volevo telefonarti, per avvisarti… Ti saresti preoccupata, lo so bene. So come sei fatta, ti conosco. Allora ho vagato ancora per il prato, riflettendo, immaginando quali potessero essere le soluzioni, a chi potessi chiedere aiuto, chi mai… Sì… Pensavo, pensavo forse a voce alta, parlando, certa che nessuno mi sentisse.
E avvicinandomi alla staccionata, quella che sta là dietro, mentre deambulavo in lungo e in largo, in continuazione… Ho sentito una cosa.
Qualcuno, sì… Non una voce, no. Nessuno parlava. Ma erano singhiozzi quelli. Sì… Si udiva un pianto, dalla casa qui a fianco, quella dei vicini.
Così mi sono affacciata oltre le piante, alzandomi a fatica, in piedi sulla staccionata… Aggrappandomi a quel cespuglio e… Sì, vedi, guarda la mia mano. Mi sono ferita perché scivolando a terra ho stretto con tanto vigore quel tronco e… Dev’essere stato pieno di spine, per forza. Guarda qui, sul palmo. Ho sanguinato molto. Sono atterrata sulle ginocchia nel prato di fianco, facendo una grande confusione, lanciando un piccolo urlo… Per il dolore. Perché quando mi sono rialzata, nel prato dei vicini, mi sono resa conto che il pianto si era interrotto.
Ed ecco che al posto dei singhiozzi sento abbaiare… E lui, il cane, mi corre incontro. Non so come ma… Dev’essere riuscito a passare nella casa affianco. Aveva tutte le zampe sporche di terriccio. Probabilmente aveva scavato una delle sue buche e si era fatto strada, superando il confine, sotto qualche siepe.
L’avevo trovato, finalmente! E mi sono sentita così sollevata in quel momento… Tu non puoi neanche immaginare quanto! Era come se, tutto d’un tratto, ogni altra cosa al mondo avesse perso importanza, come se il valore di quello che stava accadendo avesse sostituito ogni preoccupazione passata, ogni affanno presente… Sì! Ho avvertito, non so come dirlo ma… Ho avvertito che quella nottata si era improvvisamente colmata di senso. Ma ecco che, proprio in quegli istanti, dopo aver afferrato il cane per il collare, sento:
Chi va là! Chi c’è là? Chi siete?
Alzo la testa e vedo, sotto il portico della villa qui accanto, una sagoma… Come un’ombra. Era il nostro vicino, quello che abbiamo sempre visto, quello che si è presentato non appena ci siamo trasferite qui, lo scorso mese.
Mi deve scusare! Sono la vicina! Ho sentito… — gli dico, ma non sapevo come continuare. Perché io il cane non l’avevo sentito. Avevo sentito qualcuno… E allora lui, all’improvviso:
Oh, va bene. Scusatemi, scusatemi — con una voce tutta rotta dal pianto. Era lui, sì, proprio così. Dirai… Chi altri poteva essere? Ma no, tu non immagini. Mi sono fatta avanti, tenendo il cane con il braccio, chinandomi in avanti, avanzando tutta piegata, calpestando a tratti la vestaglia, rischiando ripetutamente di capitolare, fino al portico, sotto quella fredda luce che copriva il pavimento fino ai margini del verde… E mi è parso di approdare.
Lo lasci pure, se preferisce — mi fa lui, ancora piangendo, seduto sui gradini che portano all’ingresso. E io gli do retta, mollo il guinzaglio, e vedo che il cane gli va incontro e lo lecca sul volto, mentre lui a fatica gli dispensa qualche carezza.
Mi scusi — faccio io — ma non avevo idea… Io… È successo qualcosa? Posso fare qualcosa? — e intanto il cane si stende affianco a lui. Fanno così, gli animali, quando sei triste. Lo sentono, certamente.
No, non può fare niente per me, non si preoccupi. Quando arriverà l’autunno, e con esso le prime piogge, quando gli alberi si faranno mesti e lasceranno andare qualche foglia, questo prato, così come il vostro, sarà più brullo e dissestato. Allora potrete, se vorrete, lasciare al cane un varco, tra la vostra proprietà e la nostra, così… Potrà giocare ovunque, correre finché vorrà. È così che dovrebbero vivere, sempre.
Io la ringrazio, ecco… Sì, grazie davvero. Ma mi chiedevo… Se avesse bisogno di aiuto. Devo essere sincera con lei, io… Stavo cercando il cane e ho sentito qualcuno che piangeva e… Ora mi rendo conto. Sì. Non voglio intromettermi, si figuri. Ma per qualsiasi cosa, ecco…
Non si deve preoccupare, davvero. Sono cose che capitano.
Che cosa? — feci io. Lo so, non giudicarmi, però ero davvero attraversata da quella strana forma di terrore che non fa altro che alimentarsi di sé. Non so se l’hai mai provato, io… Non lo so. Ma capita di tanto in tanto di provare qualche paura che desidera in fondo soltanto perdurare.
Mi ha lasciato. Mi ha lasciato, forse… Questa volta del tutto. Se n’è andata, con la macchina, poco fa. Ha preso le sue cose e… Se n’è andata. Credo desiderasse farlo da molto. Non abbiamo discusso, no, tutt’altro… Non abbiamo proprio parlato.
Io — non sapevo rispondere. Aveva il volto rosso, paonazzo, solcato da fiumi.
La sera — mi interrompe — di solito mi siedo qui dentro, in sala, vicino alla parete volta a nord. Sto sulla mia scrivania, sotto la lampada calda… Una lampada dei primi del secolo scorso, sì… Era di mia nonna. Sto seduto e scrivo. Faccio questo, nella vita… E anche questa sera ero là, in silenzio. L’ho sentita scendere le scale in fretta, con la valigia in mano, un piccolo bagaglio rosso, di tela, neanche troppo rigonfio… Si è infilata le scarpe e voltandosi mi ha detto: stai pure qui, non osare cercarmi. Fammi un favore, resta qui per sempre. E se n’è andata, sbattendo la porta. Io sono rimasto pietrificato per diversi minuti, in piedi, là dentro. E poi sono uscito qui, per una sigaretta. Di solito apro le finestre, le scosto di poco, e fumo dentro. Ma questa volta non me la sono sentita. Sono seduto qui da un po’. E ho preso a piangere, sì. Di solito non piango ma… Anche in questo caso, non me la sono proprio sentita. Poi è arrivato il cane. Dev’essere passato attraverso la staccionata, immagino. Mi spiace se non l’ho riportato subito da voi. Mi ha fatto compagnia. Sì… Compagnia. Che bella parola. Quando una persona ti abbandona, ecco… Tutto il mondo ritorna quello di prima. Direi, quasi, che torna quello che era prima che nascessi. Di fatto, in poche parole, quello che non c’era. Avverti che tutto quello che hai compiuto prima, tutti gli sforzi, la fatica… Tutta l’immaginazione, la progettazione, tutto… È accaduto per niente. E al tempo stesso sarà niente, sarà… Sì, improvvisazione. È così difficile accettarlo. Ogni narrazione, ogni sguardo, ogni desiderio… Ora non ci sono più. Credimi, non v’è nulla di più faticoso che sperare di ricordare tutto, un domani. Nulla di più sciocco e al tempo stesso, nulla di più quotidiano… È l’abitudine quella che ci frega, sì… Si chiama così. La grande storia dei giorni nostri, dei giorni andati, di tutti quelli che verranno… Questo romanzo ha un titolo: il sentimento di adeguarsi. E quando La persona ti lascia, tutto brucia. Anche la copertina. Tutto brucia, comprese le pagine che vanno ancora riempite… Tutto. Sì. Ogni cosa sparisce… E tu ti specchi, ovunque sia possibile. Ti specchi… E il riflesso riporta la tua figura, logorata dal dolore, ferma immobile, in piedi, con un cero in mano. Siamo noi… Siamo noi, sempre… Noi contro di noi… Sì. Spero tanto, a volte, che il tempo ci sottragga certe convinzioni. Vorrei poter essere artefice di tutto, e più lo desidero più inorridisco. Se mi penso la mattina, appena sveglio, con la bocca impastata dalle resistenze del sonno, più… Più immagino d’essere mai nato. Di scoprire ogni volta la stessa condanna, ogni mattina. Se qualcuno potesse salvarmi, ecco… Direi a quel tale: elimina gli altri, tutti… E lasciami parlare da solo, da solo in eterno, Oppure… Oppure sparami sulla fronte. Ma evita di perderti in altro. L’ho già fatto io per troppo tempo. Io vedo solo due soluzioni. Il resto è la terra di sempre. Allora: buona fortuna, amici miei! Buona fortuna…
Fine.
Perdonami, ho bevuto un po’. Non volevo annoiarti.
La ragazza si alzò, sedendosi. Si tolse gli occhiali. Guardò la compagna per qualche istante. Pareva commossa. Così le disse:
Lui è sposato? Lo sapevi? Io non ho mai visto altre persone entrare o uscire. Aveva una moglie? Una compagna?
Me lo sono chiesta anche io. Ma non ho osato chiederlo. Poi l’ho capito, quando me ne ha parlato, bevendo una tazza di tè.
Sei entrata?
Sì, mi ha invitata dentro e mi ha offerto… Del tè caldo. Sì… E… Mi ha parlato di lei. Litigavano da qualche tempo, almeno… Così mi è parso di capire.
Ma tu l’hai mai vista?
No… Io, no…
Nemmeno io. Che storia strana. Mi dispiace per lui. Certo… Sì, che strano. Dovremo… Anche questa cosa, questa… Questa idea di far correre il cane… Di farlo passare di là… Non lo so. Comunque, mi spiace. Fammi vedere la mano. Non ho visto che ti sei fatta male.
La donna le mostrò il palmo. Aveva un segno rosso. Poi aggiunse:
Sai… È andato in bagno, ad un certo punto. Il cane stava fermo, quasi dormiva. Era rilassato, più del solito. Tanto che ho pensato, ti sembrerà assurdo, ma ho pensato che non fosse la prima volta che… Sì, insomma, sembrava abituato, ecco. Io me ne stavo andando, ero in piedi, l’ho richiamato. E intanto ho gettato lo sguardo sulla piccola credenza vicino all’ingresso. Accanto ad un vaso di fiori vuoto, ad alcune lettere, ad un mazzo di chiavi… Ho visto una foto. Una foto di lei, della compagna, immagino. Non so se siano sposati, questo… Non me l’ha detto. Ma devo confessartelo… Sì.
Ora, ti prego, non pensare che io sia del tutto impazzita. Certo, era tardi e come ti ho detto prima non avrei desiderato altro che riposare, fossero state diverse le circostanze…
Che poi, dopotutto, come potevo aver dimenticato di richiamare il cane? Non ne ho idea!
Comunque… Sì… Ti assicuro che quella ragazza, nella foto… Davvero sembravi tu. Aveva i capelli come i tuoi, sciolti sulle spalle. Un sorriso mal disposto, gli occhi mezzi aperti, come i tuoi… Un naso arricciato, simile al tuo… Ma certo, certo… Non eri tu, no… Insomma… Ma ti somigliava così tanto. Anche la pelle, le tinte schiarite della tua pelle… La fronte bianca, morbida, più rilassata di ogni altro spazio, di ogni altro dettaglio, di… Amore, davvero, io… Stavo per svenire. Per un attimo eh, solo… Per un attimo. Ho avuto un mancamento, poi mi sono sorretta. E ho pensato: se fossi caduta ancora, questa sera… Con le ginocchia così addolorate. Di certo mi sarei fatta male.
Il sole crollava, come sorretto da un esile giovinetto stremato dalle fatiche dell’ascolto, affaticato da tutto ciò che era stato costretto a subire, ad opera di altri. Tra le nubi lo si poteva scorgere, tutto sudato, mentre strenuamente addormentava il giorno. Così come fa ogni lettore, a tarde ore, socchiudendo le palpebre, cedendo agli sforzi compiuti, animato solo dal vigore del proprio vissuto, rifiutando la crepa dei drammi della notte.
La ragazza la osservava, impassibile. Il suo volto pareva distante da ogni rappresentazione le avesse unite in precedenza. Così che, se mai il tempo si fosse riavvolto, memore di tutte le esperienze, anche le più recenti, forse la donna non sarebbe stata in grado di dubitare, anche solo per un istante, che nella foto in casa del vicino fosse ritratta una giovane simile alla propria compagna.
Quando mi sono ripresa — fece ancora lei — ho osservato con più attenzione quell’immagine. E mi è finalmente sembrata una ragazza come tante. Te lo assicuro! Mi sono sentita sollevata.
Comunque… Ecco, tutto questo… Tutto questo per dirti una cosa. Io mi sono permessa, prima di salutarlo e di rientrare qui, sempre tenendo il cane a guinzaglio, sì… Mi sono permessa di invitarlo a casa nostra. Per bere qualcosa, dopo cena… Senza alcun impegno. So che… Sì, so bene che non abbiamo ancora ricevuto ospiti, da quando siamo qui. Però… Mi ha procurato una tenerezza così profonda… Lo giuro! Non sono riuscita a resistere. Il fatto è che poi, già il mattino seguente, ho come scordato ogni cosa. Non avevo bevuto, no. Credimi, no… Però mi è davvero capitato di ripensarci solo a tratti, non so dire per quali ragioni. E prima, prima che tu rientrassi… Mi è tornato alla mente. E mi sono sentita così stupida, così… Ecco, non sapevo come dirtelo. Perdonami. Però ora mi trovo costretta, perché… Io immagino che tra poco sarà qui. Non è ancora rientrato, ho controllato e le finestre sono chiuse. Ma mi aveva avvisata, mi aveva detto: se tutto va bene, sarò a casa appena prima del tramonto. Ma potrei anche tardare. — così mi ha detto.
La ragazza si alzò. E dopo qualche attimo disse:
Vado in bagno a sistemarmi. Dovrebbe esserci del vino in casa. Ho visto che la dispensa è piena. Sarà il caso di offrire qualcosa da mangiare. Quando si accoglie si ha il dovere di sorprendere chi arriva.