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Puntata 8

1.

Ma sarebbe esploso l’odio. Lo sentiva, dentro, montare, lentamente ma con costanza – qualcosa che sale e cresce, non come un’emozione che s’intensifica e alla fine dirompe, più come un computer che continua ad aprire finestre su finestre, un algoritmo che s’arricchisce di dati fino a coprire tutto lo schermo. Il suo odio era diverso da quello comune, era fatto d’informazioni, di ragioni, di tensioni, di dettagli, un mostruoso ingranaggio iperrazionale impazzito, un congegno impossibile da spegnere una volta avviato, pronto a superare la velocità di volta e diventare esponenziale. E quindi eccolo lì, il suo odio, quella terribile supremazia del pensiero, una lotta di sopraffazione mentale e intellettuale in cui lei vinceva sempre, oppure sempre perdeva, a seconda del punto di vista, giacché non potendo mai distruggere completamente l’oggetto sempre diverso del suo odio, era lei stessa che a un certo punto non sopportava più la presenza dell’altro, addirittura il pensiero dell’altro, o dell’Altro, come dicevano alle lezioni dell’università, l’Altro con la A maiuscola e i trattini nel mezzo a segnalare la presenza di un concetto filosofico: l’Altro-da-sé, il Mondo in tutta la sua brutale e grossolana impostura, il Mondo Altro-da-sé che ti ficca il muso nel salotto, che sgrava cuccioli nei pressi della tua persona, che legge poesie o semplicemente dice di scriverle – esiste qualcosa di più ridicolo? E allora tutto diventa così insopportabile, così intollerabilmente kitsch, così già simulato, prescritto, già visto, già sentito, così presto a prestito da tutt’altri discorsi che doveva andare in bagno, prendere fiato, contare fino a cinquanta per provare a calmarsi. E poi, subito dopo, trovare un escamotage decente per tirarsene fuori. Congedare frettolosamente il vicino, fingere un piccolo malessere, evitare il cane inventandosi una qualche inesistente allergia. E dopo, solo dopo, iniziare a immaginare la congiura.

2.

Non era sempre stato così. Prima di quel periodo, iniziato da poco, che Alice aveva denominato l’Era della Vendetta, c’era stato un periodo molto più lungo: sempre da lei catalogato come l’Era della Colpa. Era stata l’epoca, durata più o meno fino ai ventisette anni, in cui la fornace del suo odio era stata un formidabile ingranaggio di automortificazione e di masochismo: il comandamento del Comprendi-Rispetta-Ama il Prossimo Tuo come Te Stesso, sopravvissuto come imperativo categorico perfino al disastro della religione cristiana, aveva funzionato per lei come una specie di schermo riflettente: l’odio che nutriva per gli altri (tutti gli altri o quasi) rimbalzava sull’oggetto e le tornava addosso, devastandola. E allora dagli coi tagli sulle braccia, i digiuni, i vomiti, le crisi di panico, i disturbi d’ansia, le insonnie interminabili, le lunghe tirate agli amici e alle ragazze, lunghe geremiadi che iniziavano sempre con il più narcisistico dei titoli: sono una persona orribile. Dopo, solo dopo era venuta la consapevolezza che non lei, ma il mondo intero era sbagliato – e non solo il mondo, ma il sistema solare, il cosmo tutt’intero, la stessa materia spaziotemporale era completamente sbagliata: solo lei era giusta (qualsiasi cosa questo volesse dire). La struttura del mondo era fuori dai cardini, ed era lei quella chiamata a rimetterla a posto. D’altronde, diceva a se stessa, nessuno ha mai a che fare col mondo. Tutti stanno davanti alla loro personale interlocuzione, portano avanti il loro discorso, esse est percipi, l’essere è il percepire, così dicevano sempre in quelle lezioni di filosofia all’università, ci fosse stato un dio le avrebbe benedette, erano state quelle a farle capire come si astraggono le cose, come si trasformano i singoli esseri in un tutto unico e compatto, una muraglia: un esercito armato ed equipaggiato di nome Mondo, e con quello, quel Tu, ingaggiare un antagonismo destinato a durare tutta la vita. Quell’esercito – così aveva capito in un ennesimo, ultimo attacco d’ansia in una mattina di fine gennaio – era tutto dispiegato contro di lei. Un esercito formato da esseri umani inadeguati, situazioni inadeguate, posti di lavoro inadeguati, luoghi inadeguati, bestie inadeguate, rapporti sessuali inadeguati, musiche inadeguate, soldi inadeguati, partner inadeguati, cose, forme, nomi, concetti, idee, lingue, strutture, tutto inadeguato e sbagliato, sbagliato alla radice.

3.

Bisognava quindi farla, questa guerra, portarla avanti fino allo stremo, lottare lottare lottare fino alle estreme conseguenze, nel micro e nel macrocosmo, come se non ci fosse un domani, come se una vittoria fosse possibile. Quella guerra, portata avanti con tenacia e fervore, era diventata la sua prima, unica grande vocazione. La vita quotidiana? Una guerriglia: e lei era una vietcong. Lo scopo: compiere rappresaglie alle basi dell’esercito nemico. Piccole azioni mirate, microagressioni strategiche – del resto, lei era sola, e loro erano tutti. Colpire gli obiettivi più vicini. Nello specifico: il poeta e il cane. Con il cane era piuttosto facile. La preparazione non le richiese tempo. Mescolò della carne macinata con il veleno per blatte che aveva sotto la cucina. Non ne mise troppo, per non rendere il sapore sgradevole e abbreviare l’agonia. La morte della bestia doveva essere lenta e rumorosa, diventare uno spettacolo didattico, far entrare in quel micragnoso idillio borghese del suo vicinato il senso di una catastrofe organica che prima o poi sarebbe toccata a tutti. Di cani non si sarebbe parlato più a lungo, lì intorno – sarebbe finito quell’orrendo sentimentalismo antropocentrico per cui l’animale sorrideva, parlava, si esprimeva, addirittura amava. In generale Alice odiava la natura, odiava tutto ciò che è sinceramente organico; guardava film di fantascienza, leggeva quanti più libri possibile ambientati nel futuro, nella vaga speranza che un giorno il corpo, con tutti i suoi umori, i suoi muschi interni, le sue ghiandole, le sue spugne, le sue membrane, sarebbe stato superato da qualcosa di più limpido e pulito: qualcosa di più puro, di più asciutto. Disperava all’idea di essere nata in un’epoca che ancora non aveva conosciuto il salto tecnologico di specie, la grande accelerazione, la Singolarità che avrebbe reso superflua e nostalgicamente patetica ogni affezione per la natura. L’aveva detto anche al poeta, quella sera, dopo aver bevuto, e lui aveva bofonchiato contento: “Come Baudelaire”. Con il cane fu facile, e fu ancora più spettacolare di come se l’era aspettato – i mugolii, i latrati e gli orrendi conati di vomito dell’animale cominciarono nel tardo pomeriggio, ma la padrona ancora non era tornata e lei finse di non sentirli, così quando lei arrivò era già almeno un’ora che la cagna agonizzava, sussultando tra gli spasmi. Dalla finestra la vide allarmarsi romanticamente, sfiorare lo svenimento, poi raccogliere l’animale con entrambe le braccia per metterlo in macchina: per un istante, nella prima luce della sera, sembrarono una Pietà contemporanea – la madonna con un cane in braccio, folgorati in una tragedia senza scampo e senza speranza di salvezza. Poi la caricò in auto, tra mille mormorii – “calma, tesoro, calma, adesso la mamma ti fa stare bene”, tutto un rosario di espressioni idiomatiche da medical drama – “tieni duro, non mollare, ce la faremo, tu non mollare”. Poi la macchina era schizzata via. Era tornata qualche ora dopo, e naturalmente non ce l’avevano fatta, la cagna era morta, la padrona si aggirava sotto gli sguardi sussiegosi di tutti, recitando il suo dolore, triste come la morte. Il giorno dopo era stato un sabato santo senza risurrezione – quello che il prete, quand’era bambina in parrocchia, definiva il giorno più triste del mondo. Ora però toccava al poeta. Distruggere un poeta, in qualsiasi senso lo si volesse intendere, era cosa più ambigua e difficile, su cui bisognava riflettere.