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Puntata 9

Distruggere un poeta è come distruggere il mondo. È una responsabilità divina, o quasi.

Mi rendo conto. Questa è la mia eredità, la mia responsabilità. Responsabilità che proprio non volevo e avrei rifiutato, se avessi saputo che la sorte mi avrebbe scelta per questo. Certo, sono mesi che viviamo in questa condizione di isolamento. Il buio. Il buio e l’isolamento non aiutano. L’esperimento è del tutto fuori controllo e questo lo si può facilmente evincere anche dal fatto che il cane sia stato sacrificato. Non si doveva. Il cane era il centro. Il cane era il futuro.

Non posso oppormi, non del tutto almeno, dal momento che non intendo avvalermi di una scrittura di prodigi. Non resusciterò il cane. Il cane che poi era una cana, e tutti i suoi piccoli.

Ci rendiamo conto?

Tutto questo è, la chiamo io, brutalità.

Dovevamo cercare di dimostrare qualcosa, senza sapere cosa. Noi eravamo, siamo, la materia, il materiale stesso del nostro esperimento. Ma non siamo padroni di condurlo alle condizioni che riteniamo desiderabili. No. Il mondo è altro a noi. Noi siamo ciò che altri hanno deciso per noi. Le loro regole, le loro certezze, i loro arbitri.

Soprattutto gli arbitri, caro Fabrizio, non posso perdonarti.

La mia cella è stretta quanto la tua, ho vissuto esattamente le stesse tue privazioni, le stesse tue torture, ma non mi sarei piegata a questo. Il cane. Il cane no.

Siamo sicuri, colleghi, di non stare prestando troppo il fianco a questo esperimento?

Certo abbiamo gli occhi addosso. Certo, la stampa internazionale non ci perde d’occhio.

 

Allora io voglio dire quello che ho visto e sentito, dalla mia cella scavata nel tufo accanto alla vostra. Ho sentito passi e, più volte, a tratti, soprattutto di notte, ho sentito parole.

C’è qualcuno che si è infiltrato, qualcuno che sta premendo e inquinando. Non voglio giudicarti Fabrizio, ma temo tu sia caduto vittima di qualcosa che ci sta impedendo, che ci sta piegando. Il cane non doveva morire, questo lo so, lo sento per certo. E tu non so cosa ci guadagnerai, cosa ti sia stato promesso. Non ti giudico, del resto qui ciascuno sceglie e giudica per sé solo. Il poeta. Certo. Uccidere il poeta.

Non è difficile uccidere un poeta. Basta riposizionarlo sul tavolo, fargli agitare le braccia, farlo inciampare in un bicchiere, non il primo, l’ultimo. Il poeta inciampa e cade, come sempre cadono i poeti, di testa. Di faccia.

E muore.

Tanti saluti.

Ma no.

No.

Non posso prestarmi a questo scempio. Sono troppi giorni che non vedo il sole e che vengo, come voi (beffa inutile e crudele), nutrita a scatolette per cani.

Non avrei mai odiato i cani per questo, mai.

E non intendo uccidere il poeta.
Fatelo presente ai vertici. Mi rifiuto e mi oppongo.

Capisco che ci stiamo muovendo su un terreno alquanto periglioso. Abbiamo firmato e non possiamo più tirarci indietro, questo è evidente. Tuttavia mi appello a quelli di voi che ancora possono qualcosa, che ancora hanno la possibilità di agire in questa corsa in autostrada ad occhi bendati: non cedete. Non cedete.

Se lo farete il risultato sarà: pubblicazione finale con strette di mano di critici e cultori della materia. Ma il prezzo, il prezzo sarà troppo alto.

Per questa ragione ritengo di agire secondo coscienza avvalendomi uno stratagemma:

Ucciderò il poeta, ma non ucciderò la poesia.

La poesia del poeta è scritta nei luoghi più remoti e voi, tutti voi, non negatelo, lo sapete bene.

Altrimenti perché abbiamo sacrificato la mano della donna? Perché l’abbiamo perduta senza combattere al suo fianco? La mano della donna era già parte di una poesia fatta di altri corpi e di altre storie. La mano avvolta e riposta nel sacchetto è parte di questa poesia. Insieme ai legnetti. Insieme alla lettera.

La poesia parla di questa mano che traccia un arco e fa salire il sole allo zenit e lo fa poi calare, nel corso di questo movimento della mano, i legnetti che stringeva le scivolano dalle dita, si sparpagliano al suolo componendo l’esagramma numero 11. TTAI –LA PACE

che recita:

Costumatezza e contentezza allora regna tranquillità, per questo segue poi il segno: La pace. Pace significa unione, connessione.

La parola cinese Ttai non è facile da tradurre. Essa significa contentezza, tranquillità, pace e precisamente nel senso positivo, del sussistere di una colleganza ininterrotta fra tutte le parti, la quale produce prosperità e grandezza. La direzione di moto del segno inferiore. Kkhen va in su, quella del superiore Kkunn va giù, e così si vengono incontro.

Il segno è coordinato al primo mese (gennaio –febbraio).

 

Ecco comporsi l’incanto di questa comunione, di questa pace.

Il poeta la conosce e la declama, nonostante la visibile ebbrezza, con perizia. La perizia che ogni disperato dona alla propria disperazione.

Pronuncia ogni parola come fosse l’ultima. (Come fosse, Fabrizio, hai capito bene, ho detto Come fosse – perché non lo ucciderò). Pronuncia la parabola della infinita consunta impotenza della voce contro il soffitto che preme e schiaccia verso il basso. E grida, infine, le sue parole di verità.

Dopo la Pace verrà il buio, sì. Noi ricorderemo tutto. Avremo negli occhi la sua fotografia.

Com’è la fotografia del buio? Questo il poeta non lo dice perché, pur essendo un discreto poeta, non sa dire tutto, soprattutto in stato di ebrezza.
Il poeta cade, sì. Inciampa e cade. Sembra morto, ma non muore.

Sbatte la faccia sul pavimento.

La sua testa, come quella di Orfeo, nessuno la vuole. È troppo pericolosa, troppo vicina al punto di cedimento del tutto sul tutto. Di tutto nel tutto.
Ma il poeta non muore. Non può morire.

Mi dispiace.

Partirei dunque da questa fotografia del buio, che è forse la ciò che più si avvicina alla nostra verità. Chi è il poeta se non colui che fotografa ostinatamente, il buio?

Cancellarlo è inutile. La sua fotografia esisterebbe anche senza di lui. Il poeta persiste nella propria fotografia. Il poeta è il buio. Il suo specifico buio.

E noi ci siamo caduti dentro.

Pace, dicono i legnetti. Certo. Ma di quale pace parlano?

Mesi di questo buio forzato hanno reso fragile il mio equilibrio mentale, lo fanno vacillare. Non so più chi sono, chi sono i personaggi e quali personaggi appartengano al primo livello (quello della storia) e quali al secondo livello (la storia della storia) e quali, infine, all’ultimo livello (la storia sotterranea). Quella che raccontiamo nel buio, appunto, delle nostre cellette.

Perché siamo qui? A fare cosa?

Scatolette per cani. Era dunque questa la nostra fine? Ci siamo dunque venduti a questo?

Sacrificare il cane e il poeta in nome di questa prassi? Il potere del male. Il potere del Mercato.

No.

Da domani, voglio dirlo, voglio gridarlo chiaro, io rifiuterò la mia razione di scatoletta. Non importa la fame. Io rifiuterò il cibo e comincerò lo sciopero più abissale che mai si sia intrapreso: lo sciopero contro l’abuso dei poteri deboli, dei poteri debolissimi, della parola, e dello scempio che se ne fa.

La nostra pace, fratelli, è nella storia.

Il poeta, dopo la caduta, sembra morto, ma qualche minuto dopo recupera la sua posizione seduta. Siede sul pavimento di quella cucina, come stordito, come instupidito. E sorride. Il suo sorriso contiene l’intera storia. Di lui tutto sta in quel sorridere stupido, indifeso, al dolore. Un rivoletto di sangue cola dalla fronte al lato sinistro della bocca spaccata.

Il poeta lecca una goccia del proprio sangue, la manda giù, e recupera coscienza. Ricorda, cerca di ricordare l’inizio di ogni cosa.  En arché en o logos.

C’era un giardino. Nel giardino c’era una ragazza. Che era una donna, che era una vecchia. La ragazza, la donna, la vecchia, stava sdraiata sull’erba e sorrideva appena. Un sorriso di Gioconda, che non diceva niente se non quello che diceva. Un sorriso che potrebbe anche non essere un sorriso ma solo l’imitazione di un sorriso. Accanto a lei sta il cane, che era una cagna. Presto morirà, ma non ancora, non adesso. Sta partorendo undici cuccioli. Una gravidanza pazza. Una gravidanza immensa. I cuccioli nascono tutti ciechi. Ma non lo saranno per sempre. Poco a poco i loro occhi prendono coraggio. Si avvicinavano alla luce, la riconoscono e la guidano alla retina. Guardano il mondo. Vedono il mondo.

La cagna li lecca, li ripulisce dal travaglio di quella caduta nella vita.

E allora la ragazza, che è la donna che è la vecchia, smette di sorridere in quel modo vacuo. Si volta verso il lettore e gli sussurra all’orecchio: non dire a nessuno che i piccoli sono nati.